mercoledì 27 gennaio 2010

KIRGHIZISTAN.

AZZURRO E SPLENDENTE SOTTO IL SOLE, l'Issyk Kul è così vasto da sembrare un mare.
Mi fermo a Cholpon Ata, un paese fatiscente in stile sovietico con i vecchi pedalò che arrugginiscono nell'acqua.
Il bar sulla spiaggia è un telone impermeabile rosa acceso.
Il frigorifero è alimentato da cavi lasciati scoperti.
L'uomo che mi serve la birra è un giovane kirghiso.
"Il guaio è che il Kirghizistan non ha un leader", mi spiega in un ottimo inglese, mentre guarda verso le cime leggermente innevate che dominano il lago.
"Pensavamo che le cose sarebbero cambiate dopo la rivoluzione, ma non è stato così".
La transizione del Kirghizistan da stato comunista a democrazia nominale non è stata violenta, ma neanche indolore.
Nel 2005 è scoppiata la cosidetta rivoluzione dei tulipani.
"Il popolo kirghiso non vuole guai", mi spiega.
"Invece delle pistole portavamo i fiori".
Le vie di Karakol sono polverose e spazzate dal vento.
Solo le strade principali sono lastricate.
Accanto alle case di legno sono ammassate carcasse d'auto.
Al mercato si vedono donne in tuta da ginnastica con il fazzoletto in testa che vendono il pane, usando come banco le carrozzine per bambini.
Per la prima volta vedo altri turisti occidentali, attirati come me dal Tien Shas.
Alle spalle di un lugubre caseggiato di cemento c'è una moschea dai colori brillanti decorata con draghi e fiori.
I bordi del tetto sono sollevati all'insù, come quelli di un tempio buddista.
Un imam vestito con una lunga tunica nera coglie una pera da un albero e me la porge.
"I dungani erano rifugiati politici cinesi che sono venuti qui un secolo fa.
Hanno costruito questo edificio senza usare neanche un chiodo", mi spiega indicando una moschea di legno.

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