giovedì 28 gennaio 2010

KIRGHIZISTAN.

ACQUE SULFUREE.

Dall'altra parte della città c'è la chiesa ortodossa russa.
Le mura di legno sono splendidamente intagliate.
Il tetto verde regge, come una corona, una serie di cupole dorate a forma di cipolla.
Sembra la casa di Hansel e Gretel.
La camera dove alloggio è arredata in stile moderno, ma l'elettricità va e viene.
Una ragazza con i capelli chiari e gli occhi verdi bussa alla porta e mi dà delle candele.
La pensione è gestita dai suoi genitori.
"Mio padre è ucraino.
Mia madre è russa e il mio patrigno è uzbeko", mi racconta.
"Dopo l'indipendenza molti russi se ne sono andati".
Le chiedo se ha mai pensato di partire.
"Il Khirghizistan è la mia casa", mi risponde.
"Dove potrei andare?".
Nelle splendide vallate a sud di Karakol trovo finalmente quello che cercavo.
Mi immergo nelle acque calde e sulfuree di una pozza scavata nella roccia, accanto a una gola, e ascolto lo scroscio dei ruscelli formati dal ghiaccio che si scioglie.
Osservo un branco di pecore che camminano lungo un ponte di legno pericolante, incalzate da un pastore al volante di una Lada.
Mi perdo in un prato e busso a una iurta per chiedere indicazioni.
Una famiglia mi invita nella sua tenda e mi offre delle patate.
Sulla parete interna è appeso un "tush kiyiz", un tessuto ricamato tradizionale.
Raffigura una volpe sogghignante, che corre su due zampe in un campo di funghi tenendo una gallina sottobraccio.
Alcuni cavalli pascolano sotto lo sguardo vigile di un uomo dagli occhiali scuri, che regge in mano un fucile troppo arrugginito per funzionare.
Dato che non parla inglese, gli indico i cavalli e scrivo dei numeri su un pezzo di carta.
E' così che ci accordiamo sul prezzo del noleggio.
L'uomo mi sella un cavallo grigio e parto al galoppo verso le cime innevate.
Il sole scompare tra le nuvole: comincia a piovere.
Faccio marcia indietro quando la pioggia si trasforma in grandine.
Al crepuscolo chiedo un passaggio su un pulmino diretto a Karakol.
I passeggeri mi offrono biscotti rotondi e vodka.
Le donne cantano melodie kirghise e prendono in giro il vecchio addormentato sul sedile in fondo.
Quando scendo, nel centro della città qualcuno mi passa un foglio di carta: è una fotocopia di un messaggio scritto a mano in cirillico, che non riesco a decifrare.
"E' una poesia", mi spiegherà più tardi la ragazza della pensione.
Me la legge in inglese.
Parla di uccelli e fiori di melo, augurando al lettore fortuna, ricchezza e amore.

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