sabato 30 gennaio 2010

CALCUTTA (VIAGGIO TRA LE LIBRERIE).

LA CASA EDITRICE.

College street ha molte attrattive, come si capisce entrando nel Coffee house.
Si trova al primo piano di un edificio a pochi metri dal National book store, il più degno concorrente di Das Gupta.
Già nella tromba delle scale il visitatore viene accolto dall'acustica fenomenale dovuta agli alti soffitti.
Rimbombano centinaia di voci.
La leggenda vuole che qui si discuta ininterrottamente da decenni di arte, letteratura e cinema.
E proprio in queste sale sarebbe cominciata la rivoluzione degli studenti bengalesi degli anni sessanta.
I camerieri con il turbante servono caffè e stuzzichini nella loro livrea bianca, non proprio immacolata.
Il Coffè house è gestito dalla cooperativa dei lavoratori bengalesi del caffè e sembra pensata apposta per contrapporsi alla cultura di Starbucks.
Ho appuntamento con il giovane regista Supriyo Sen.
Al nostro tavolo ci sono anche uno scrittore e un poeta lirico che dirige una rivista letteraria.
Parliamo del film "The millionaire", che è ambientato a Mumbai ma scalda gli animi anche qui a Calcutta.
Un'opportuna critica sociale o il solito sguardo occidentale sull'India che non riesce mai a staccarsi dagli slum?
La serata si conclude nella sede di una piccola casa editrice in una traversa di College street.
Arun Banerjee pubblica libri di testo sulla letteratura bengladese per le scuole.
Una lampada al neon illumina gli scaffali incurvati dall'età e carichi di libri.
Banerjee racconta che all'inizio è subentrato un po' controvoglia al padre nella gestione della casa editrice, perchè in realtà avrebbe voluto diventare cantante.
Supryo Sen chiede al suo amico di cantarci una canzone che sarà inclusa anche nel suo prossimo film.
Banerjee ci proibisce di pagare le raccolte di poesie di cui ha curato la pubblicazione e che voglio regalare a un mio amico bengalese che abita in Germania e mi ha sempre parlato con entusiasmo di College street: un paradiso di tutti gli amanti dei libri, dove gli autori incontrano ogni giorno i loro editori.
E dove i lettori sono anche scrittori e dove può capitare che un libraio venda i suoi volumi solo dopo averli letti.
CALCUTTA (VIAGGIO TRA LE LIBRERIE).

A CALCUTTA IL TE' si beve in minuscole tazzine di terracotta che hanno un retrogusto terroso e conferiscono un tono particolare all'addah, l'ora di pausa che in città tutti si concedono per fare conversazione.
Parliamo di Rabindranath Tagore, il genio universale della poesia bengalese, e dei molti autori che ne seguono le tracce.
Dopo il tramonto College street si illumina di luci al neon.
Studenti e professori escono dall'università e si uniscono alle persone che passano da un negozio all'altro in cerca di affari, di qualche rarità o di un volume di fiabe da leggere ai figli la sera.
Molti dei clienti hanno un libro in mano e, assorti, ignorano il frastuono delle auto, del tram, dei guidatori di risciò e dei fattorini che trasportano sulle carriole pile di volumi.
Nei retrobottega leggono anche i librai.
A differenza degli altri mercati della città, qui nessuno pubblicizza le sue merci urlando a squarciagola.
Tra gli studenti, che qui a Calcutta si riconoscono dagli zainetti logori e dall'abbigliamento casual, nessuno fa mistero del fatto che in College street i libri si porssono comprare a credito.
La vicinanza di tre università favorisce il commercio dei manuali accademici.
Sono molte le pile di libri d'informatica nuovi di zecca, che attirano l'attenzione ostentando colori appariscenti.
Accanto ci sono i più discreti testi di medicina e i fogli ingialliti dei tomi d'antiquariato e dei romanzi usati che, nella maggior parte dei casi, sono di terza o quarta mano.
Nella gerarchia di College street, i commercianti specializzati in questo genere di libri si collocano un gradino più in alto rispetto a quelli che vendono i cosidetti "chapbooks".
La caratteristica principale dei "chapbooks" è che costano poco.
I loro acquirenti arrivano soprattutto dalla campagna e la visita a College street rappresenta per molti abitanti dei villaggi il momento più importante della loro gita in città.
I "chapbooks" toccano qualunque argomento.
In molti casi sono versioni semplificate di libri di preghiera o di classici della letteratura, ma si trovano anche manuali di ogni tipo e, ovviamente, pornografia.
Nell'ultimo caso, in copertina ci sono bionde in topless con l'acconciatura anni sessanta o scene di amplessi tratte da film scandinavi.
All'interno non ci sono immagini, ma solo alcune pagine di testo su carta riciclata.




venerdì 29 gennaio 2010

CALCUTTA (VIAGGIO TRA LE LIBRERIE).

SVILUPPARSI IN ALTEZZA.

Con la cartina in tasca proseguiamo verso la grande libreria Das Gupta.
E' stato Mallick a parlarcene, descrivendola come il primo posto in cui cercare testi di cinema.
A College street conoscere i colleghi e raccomandarli ai clienti è un'abitudine.
Così il visitatore "naviga" da un posto all'altro anche se non è su internet, ma in un quartiere che si attraversa a piedi e che non potrebbe essere più vitale.
La libreria di Arabinda Das Gupta è aperta al pubblico tutti i giorni tranne la domenica, dalle nove del mattino alle nove di sera.
Il suo negozio è un grande spazio pieno di preziose bacheche in tek e vetro.
A volte i suoi clienti fanno la fila nel corridoio formato dalle pile di novità che dall'ingresso arrivano fino al bancone.
Quella di "Arabinda Babu", o "zio Arabinda" come lo chiamano tutti in negozio in segno di rispetto, è una famiglia di librai da quattro generazioni.
Una targa precisa: "Booksellers since 1886" (librai dal 1886).
La Gupta & Company ltd. è considerata un'istituzione di College street, e il proprietario va molto fiero del suo mestiere: "Nel Bengala Occidentale questa libreria è considerata una delle attività commerciali più prestigiose dello stato: basti pensare che, ogni volta che serve, i rappresentanti dei librai s'incontrano a Delhi con i politici o addirittura con il presidente".
Das Gupta tralascia di aggiungere che questo privilegio viene concesso innanzitutto a lui.
Ma forse non è un caso che proprio di fronte alla Das Gupta stia sorgendo un edificio a più piani con una superficie di 65mila metri quadrati.
"Dobbiamo svilupparci in altezza", dice Das Gupta: "al livello della strada non c'è più spazio già da molto tempo.
In questo quartiere le librerie sono già diecimila e non faranno che aumentare", Qui ci sono tremila case editrici e la città ospita una fiera annuale del libro, "che ha più visitatori della fiera di Francoforte".
Domani zio Arabinda deve andare a Londra per affari, ma trova comunque il tempo di offrirci una tazza di tè.
Quando il "tea boy" arriva con il suo vassoio, ci raggiungono anche la signora Das Gupta e un commesso.


giovedì 28 gennaio 2010

CALCUTTA (VIAGGIO TRA LE LIBRERIE).

LA STRADA DEL LETTORE.

"A Calcutta c'è un intero quartiere che vive di libri.
Intorno a College street sono nate migliaia di librerie, case editrici e tipografie".

Il mezzo più piacevole per raggiungere College street è l'antico tram che dai quartieri più esclusivi, a sud, percorre Lenin Sarani e attraversa il Bow bazaar.
A ogni traversa il panorama cambia: la strada con le bancarelle piene di verdura, poi la via dei negozi di articoli sanitari.
Quindi la strada delle apparecchiature mediche che, viste dal tram, sembrano opere esposte in un museo.
Calcutta è associata in Europa a immagini di povertà, ma nella capitale dello stato indiano del Bengala Occidentale non c'è solo miseria.
Superiamo un altro incrocio, poi oltre il finestrino aperto del tram, vedo le colonne bianche della Calcutta university ed entriamo nella zona che per gli indiani simboleggia più di tutte la città.
Con le sue tre grandi università e un passato rivoluzionario, College street ha la fama di essere il centro intellettuale dell'India.
Qui le arti e le scienze sono venerate e anche i turisti non possono fare a meno di notare l'enorme quantità di libri esposta nelle strade.
Intorno a College street ci sono molte librerie, tipografie e case editrici.
Nella maggior parte dei casi le rivendite non sono altro che chioschi in legno con un'insegna che indica il nome del proprietario, l'indirizzo e la specializzazione: bengalese, inglese, hindi, urdu, arabo, storia, religione, politica.
Il "Banco n. 54, Presidency college street" appartiene al signor Mallick, che da più di quarant'anni vende sopratutto manuali giuridici e di letteratura.
Indossa una camicia appena stirata che si abbina alla perfezione con i capelli tinti di nero, che porta un po' lunghi come molti intelettuali di Calcutta.
Quando gli chiediamo una cartina della città inorridisce indignato, ma poi sorride indulgente, mette da parte il libro che stava leggendo e sale su una scaletta.
Rovistando un po' in giro, trova una cartina stampata in bianco e nero, probabilmente degli anni Sessanta.
Allegato c'è un indirizzario che si apre con un motto di Karl Marx.
C'è anche una citazione di Guter Grass: "Se Calcutta muore, anche tutte le altre città moriranno".
Gli chiedo se la cartina è ancora utilizzabile.
Mallick risponde di sì perchè, spiega, da allora Calcutta non è cambiata molto.

CALCUTTA (VIAGGIO TRA LE LIBRERIE).

INFORMAZIONI PRATICHE.

ARRIVARE.
Per andare in India bisogna chiedere il visto all'ambasciata indiana (snipurl.com/jrojp).
Il visto turistico costa 50 euro.
Il prezzo di un volo dall'Italia (Emirates, Air India, Lusthansa) per Calcutta parte da 804 euro a/r.

CLIMA.
Il periodo migliore per visitare Calcutta va da novembre a metà febbraio, quando la temperatura è più fresca.

DORMIRE.
L'Oberoi, in stile vittoriano, è uno degli alberghi più prestigiosi di calcutta (oberoikolkata.com).
Una doppia costa 300 euro a notte.
Il bed and breakfast Bodhi tree (snipurl.com/jrliu) offre una doppia a partire da 40 euro a notte.
Il B&B si trova nella zona sud della città, a pochi metri della fermata della metropolitana.

LIBRERIE.
Le librerie di College street sono aperte dalle 9 alle 21 (domenica esclusa).
A MIO AVVISO E' UTILE SAPERE CHE:
In Italia esiste una attività che da più di 35 anni produce e commercializza "BANDIERE E RELATIVI ACCESSORI", da utilizzo sia per interni che per esterni, partendo dalle bandierine da tavolo e arrivando fino ai pennoni in alluminio oppure in vetroresina da mt. 5 a mt. 40.
L'attività in oggetto è la "B.A.F.A. BANDIERE" (vedi catalogo in internet).
PROFILO DELL'AUTORE E INDICE VIAGGI A INIZIO BLOG " ERMANNO RARIS".
KIRGHIZISTAN.

ACQUE SULFUREE.

Dall'altra parte della città c'è la chiesa ortodossa russa.
Le mura di legno sono splendidamente intagliate.
Il tetto verde regge, come una corona, una serie di cupole dorate a forma di cipolla.
Sembra la casa di Hansel e Gretel.
La camera dove alloggio è arredata in stile moderno, ma l'elettricità va e viene.
Una ragazza con i capelli chiari e gli occhi verdi bussa alla porta e mi dà delle candele.
La pensione è gestita dai suoi genitori.
"Mio padre è ucraino.
Mia madre è russa e il mio patrigno è uzbeko", mi racconta.
"Dopo l'indipendenza molti russi se ne sono andati".
Le chiedo se ha mai pensato di partire.
"Il Khirghizistan è la mia casa", mi risponde.
"Dove potrei andare?".
Nelle splendide vallate a sud di Karakol trovo finalmente quello che cercavo.
Mi immergo nelle acque calde e sulfuree di una pozza scavata nella roccia, accanto a una gola, e ascolto lo scroscio dei ruscelli formati dal ghiaccio che si scioglie.
Osservo un branco di pecore che camminano lungo un ponte di legno pericolante, incalzate da un pastore al volante di una Lada.
Mi perdo in un prato e busso a una iurta per chiedere indicazioni.
Una famiglia mi invita nella sua tenda e mi offre delle patate.
Sulla parete interna è appeso un "tush kiyiz", un tessuto ricamato tradizionale.
Raffigura una volpe sogghignante, che corre su due zampe in un campo di funghi tenendo una gallina sottobraccio.
Alcuni cavalli pascolano sotto lo sguardo vigile di un uomo dagli occhiali scuri, che regge in mano un fucile troppo arrugginito per funzionare.
Dato che non parla inglese, gli indico i cavalli e scrivo dei numeri su un pezzo di carta.
E' così che ci accordiamo sul prezzo del noleggio.
L'uomo mi sella un cavallo grigio e parto al galoppo verso le cime innevate.
Il sole scompare tra le nuvole: comincia a piovere.
Faccio marcia indietro quando la pioggia si trasforma in grandine.
Al crepuscolo chiedo un passaggio su un pulmino diretto a Karakol.
I passeggeri mi offrono biscotti rotondi e vodka.
Le donne cantano melodie kirghise e prendono in giro il vecchio addormentato sul sedile in fondo.
Quando scendo, nel centro della città qualcuno mi passa un foglio di carta: è una fotocopia di un messaggio scritto a mano in cirillico, che non riesco a decifrare.
"E' una poesia", mi spiegherà più tardi la ragazza della pensione.
Me la legge in inglese.
Parla di uccelli e fiori di melo, augurando al lettore fortuna, ricchezza e amore.

mercoledì 27 gennaio 2010

KIRGHIZISTAN.

AZZURRO E SPLENDENTE SOTTO IL SOLE, l'Issyk Kul è così vasto da sembrare un mare.
Mi fermo a Cholpon Ata, un paese fatiscente in stile sovietico con i vecchi pedalò che arrugginiscono nell'acqua.
Il bar sulla spiaggia è un telone impermeabile rosa acceso.
Il frigorifero è alimentato da cavi lasciati scoperti.
L'uomo che mi serve la birra è un giovane kirghiso.
"Il guaio è che il Kirghizistan non ha un leader", mi spiega in un ottimo inglese, mentre guarda verso le cime leggermente innevate che dominano il lago.
"Pensavamo che le cose sarebbero cambiate dopo la rivoluzione, ma non è stato così".
La transizione del Kirghizistan da stato comunista a democrazia nominale non è stata violenta, ma neanche indolore.
Nel 2005 è scoppiata la cosidetta rivoluzione dei tulipani.
"Il popolo kirghiso non vuole guai", mi spiega.
"Invece delle pistole portavamo i fiori".
Le vie di Karakol sono polverose e spazzate dal vento.
Solo le strade principali sono lastricate.
Accanto alle case di legno sono ammassate carcasse d'auto.
Al mercato si vedono donne in tuta da ginnastica con il fazzoletto in testa che vendono il pane, usando come banco le carrozzine per bambini.
Per la prima volta vedo altri turisti occidentali, attirati come me dal Tien Shas.
Alle spalle di un lugubre caseggiato di cemento c'è una moschea dai colori brillanti decorata con draghi e fiori.
I bordi del tetto sono sollevati all'insù, come quelli di un tempio buddista.
Un imam vestito con una lunga tunica nera coglie una pera da un albero e me la porge.
"I dungani erano rifugiati politici cinesi che sono venuti qui un secolo fa.
Hanno costruito questo edificio senza usare neanche un chiodo", mi spiega indicando una moschea di legno.
KIRGHIZISTAN.

LATTE FERMENTATO DI GIUMENTA.

Le montagne sono molto più vicine di quanto pensassi.
A mezz'ora d'auto dalla capitale c'è il parco nazionale di Ala Archa, un luogo desolato e incantevole: ripidi pendii rocciosi con alberi rossastri e ruscelli azzurro ghiaccio.
Vicino all'entrata c'è un albero dei desideri con tanti stracci colorati appesi ai rami dai visitatori (ognuno di essi rappresenta il desiderio di un visitatore).
Le persone si fermano per un picnic lungo le sponde del fiume, arrostendo kebab e bevendo birra sotto il sole di settembre.
Un gruppo di studenti che raccoglie la legna per il fuoco si avvicina sperando di farsi fotografare da un turista.
"Vai a Karakol", mi aveva detto Ben, un campeggiatore australiano che avevo incontrato al bazar di Osh, il mercato di Bishkek.
Ben era andato a fare un'escursione nel Tien Shan e si era accampato sulle montagne.
Gli avevo raccontato del mio desiderio di vedere le cime kirghise, che conoscevo solo attraverso i libri: nomadi, cavalli e tappeti di feltro decorati.
"Vedrai persone giocare a "ulak tartish", mi aveva spiegato riferendosi a un gioco simile al polo, in cui i partecipanti si contendono una capra senza testa.
Lungo la strada per Karakol noto molti cimiteri musulmani, le rastrelliere con il pesce messo a essicare e i caffè a forma di iurta, che servono tazze di "kumys" (latte fermentato di giumenta).
I cavalli trascinano aratri in mezzo ai campi.
Per gran parte del tragitto la strada costeggia l'Issyk Kul, un enorme lago salato con una superficie di 6.200 chilometri quadrati, che non ghiaccia neanche durante i mesi invernali.
KIRGHIZISTAN.

PANORAMA KIRGHISO

"Un lago grande come un mare, moschee colorate e pastori nelle loro iurte.
E infine la catena montuosa del Tien Shan".

"Stambecco siberiano, pecora di Marco Polo, cervo rosso".
L'anziano cacciatore tedesco mi svela candidamente la sua lista dei desideri.
"Niente leopardo delle nevi?", chiedo.
"No, no.
Non si può.
Sono creature molto timide ".
Si sporge verso di me con fare cospiratorio e sussurra: "Lassù, in mezzo al ghiaccio, ci sono anche delle miniere d'oro".
Seduti nel ristorante del Silk Road Lodge di Bishkek, mangiamo toast e formaggio avanzati dal buffet della colazione e intanto parliamo del Tien Shan: le "montagne celesti", che dominano la topografia del Kirghizistan e sono il principale biglietto da visita di questo paese relativamente anonimo. Nella mia mente il Tien Shan aveva assunto dimensioni quasi mitologiche, con le sue pecore giganti dalle corna lunghissime, che prendono il nome dal viaggiatore italiano morto otto secoli fa.
Se il vecchio cacciatore mi avesse detto che sulle montagne c'erano gli hobbit, ci avrei creduto.
Qualche ora dopo, passeggiando per le larghe strade vuote di Bishkek, intravedo le cime del Tien Shan.
Vicine e affascinanti, svettano oltre il tetro paesaggio urbano segnato dal grigiore funzionale dell'architettura sovietica.
Bishkek è una città monumentale: la piazza principale, Ala Too, è dominata dalla statua di una donna alata, con la gonna svolazzante e i piccioni nei capelli, che regge in mano un "tunduk" (simbolo del paese, il tunduk è una specie di raggiera che forma la parte superiore della iurta).
Fino a trentanni fa qui sorgeva una statua di Lenin.
Più tardi mi imbatto in una vera e propria iurta nel centro di Bishkek, tra negozi illuminati, ristoranti italiani e bar per lavoratori stranieri.
E' ricoperta di fili al neon come per adeguarsi al contesto urbano.
Mi siedo all'aperto, a un tavolino di plastica.
Una donna corpulenta in grembiule mi serve del soffice pane fritto e una bottiglia di vodka, il tutto al prezzo di un giornale.
Dall'altra parte della strada due uomini dai capelli grigi mi sorridono calorosamente.
Indossano abiti moderni, ma in testa portano entrambi il tradizionale cappello di feltro bianco, alto e ricamato.




KIRGHIZISTAN.

INFORMAZIONI PRATICHE.

ARRIVARE.
Il visto per il Kirghizstan si può ottenere all'aeroporto d'arrivo.
Il prezzo di un volo dall'Italia (Aeroflot, Turkish Airlines, Uzbekistan Airways) per Bishkek parte da 731 euro a/r.

CLIMA.
Il periodo migliore per andare in montagna va da luglio a settembre, perchè le temperature non sono troppo rigide.

DORMIRE.
Il Silk Road Lodge (00996 312 324 889, silkroadlodge.kg) si trova in un quartiere molto tranquillo a pochi minuti a piedi dal centro di Bishkek.
Una doppia costa 65 euro a notte.

MANGIARE.
Il Cafè Faiza (00996 312 664 737) è un famoso ristorante kirghiso nella zona nord di Bishkek.
Offre una cucina di qualità a prezzi ragionevoli.
L'Arzu Cafè di Karakol ha un'ampia scelta di piatti vegetariani.
Altrimenti si può provare il "breizol", un involtino ripieno di carne, pomodori e altra verdura.
E' GIUSTO SAPERE:
Ho deciso di offrire a chi piace viaggiare (con la fantasia oppure in prima persona) una possibilità di scegliere degli intinerari prevalentemente avventurosi, che si distinguono per la loro diversità dai viaggi tradizionali.
Le descrizioni le traggo dal settimanale "INTERNAZIONALE" del quale sono abbonato ed affezionato lettore di tutti gli articoli che lo compongono.
Spero di fare cosa gradita a quanti mi leggeranno, ed auguro a tutti una piacevole lettura.
ERMANNO RARIS
PROFILO DELL'AUTORE E INDICE VIAGGI A INIZIO BLOG "ERMANNO RARIS".

martedì 26 gennaio 2010

MADAGASCAR (ISOLA DI "RODRIGUES").

SOGLIA DI POVERTA'.

L'isola ha ottenuto l'indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1968, insieme a mauritius.
Ma cercando con attenzione si trovano ancora tracce dello stile di vita britannico: le prese a tre buchi, i biscotti ripieni, i Weetabix, le sigarette Embassy.
Jean-Paul mi porta a Port Mathurin, la piccola capitale dell'isola.
E' giorno di mercato.
L'ufficio del turismo di Port Mathurin si trova in una stanza all'interno di una residenza coloniale del 1897.
Due giovani, Sandrine e Cliff, mi parlano delle attrazioni turistiche dell'isola.
Si possono fare immersioni per vedere la barriera corallina o fare escursioni lungo i sentieri dell'interno.
Una gita in barca permette di raggiungere Ile aux Cocos, un'isola deserta dove gli uccelli rari di Rodrigues hanno lo status di specie protetta.
La laguna è il posto ideale per fare kitesurfing, mi spiega Sandrine.
Poi mi fa vedere le statistiche sui turisti del mese precedente: ci sono stati 3.555 visitatori da Mauritius, 1.486 da Rèunion (che fa parte della francia), qualcuno dal Sudafrica, l'Australia e l'Italia e 47 dalla Gran Bretagna.
E com'è la situazione sull'isola?
Sandrine alza gli occhi al cielo.Non va molto bene, c'è la crisi economica.
E con solo due voli al giorno è difficile che il numero dei visitatori possa aumentare in tempi brevi.
Ci dirigiamo a ovest verso la principale attrazione turistica dell'isola, la riserva delle tartarughe giganti e la grotta Francois Leguat, che prende il nome da un esule sbarcato a Rodrigues nel 1691, quando l'isola era ancora disabitata e incontaminata.
La vita qui sembra un'imitazione talmente convincente del paradiso che viene da chiedersi: dov'è il trucco?
La risposta va cercata nella delicata situazione ambientale: oltre all'erosione e alla siccità, l'isola deve affrontare le conseguenze dell'eccessiva pesca nella laguna, che ha ridotto ai minimi termini le riserve di polpo.
C'è un'altra ombra sulla vita politica ed economica locale: molti abitanti ce l'hanno con Mauritius, che a quanto pare dà pochi finanziamenti e cerca di soffocare lo sviluppo di Rodrigues.
Secondo la Banca mondiale, il 37,5 per cento della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà.
Se davvero ci sono delle difficoltà, si nascondono sotto la superficie ordinata della vita isolana.
A Rodrigues la criminalità praticamente non esiste.
Il carcere dell'isola ospita sei persone, ma l'impressione è che uno può entrare e uscire quando gli pare.
Nessuno ricorda l'ultimo omicidio.
Un pomeriggio ho dimenticato le mie costose infradito sulla spiaggia ad Anse Hally.
Qualche ora dopo, mentre ero a cena, me ne sono accorto e sono corso a cercarle.
"Oh ils seront là", mi ha detto Claudine con nonchalance, preparando un punch al rum.
E infatti erano lì.
MADAGASCAR (ISOLA DI "RODRIGUES").

MANGIAMO CERNIA e pesce pappagallo, spigola e "dame berri": tutte specie tropicali dalla carne bianca.
I modi più diffusi di cucinare il pesce e la carne sono il "rugail" (una specie di stufato con i pomodori) e il "curi" (curry) con zenzero e garam masala.
Quando non mi fermo a mangiare me ne vado in giro per l'isola con Jean-Paul, il mio autista, e la sua grande jeep.
Prima di diventare autista, Jean-Paul faceva il pugile.
Girare in macchina con lui è come andare sulle montagne russe, in molti casi facendo lo slalom tra buche e radici.
Presto comincio a riconoscere non solo i posti, ma anche le facce.
Dal lettore cd della sua jeep esce sopratutto pop francese e "séga" mauriziano, un'allegra musica tropicale dalle radici africane.
Ma nella collezione di Jean-Paul c'è anche un po' di autentico folk di Rodrigues.
E' uno strano miscuglio di vecchie danze europee (valzer, mazurka, reel), rivisitato in chiave locale con tanto di fisarmonica, triangolo e tamburi.
La vita dell'isola ha un fascino letterario.
Anche i nomi dei luoghi - Rivière Banane, Malabar, Chateau de fleur - hanno qualcosa di infantile e innocente, come i nomi sulla mappa di un'isola del tesoro.
A Gravier, un paesino sul litorale, un maiale scappa per le strade inseguito da una bambina.
Rodrigues presenta una serie di sorprendenti stranezze culturali.
Si guida a sinistra e la segnaletica stradale ricorda quella inglese.
La moneta (la rupia) e la cucina piccante rivelano l'influenza indiana.
I francesi sono stati qui soltanto per 74 anni, dal 1735 al 1809.
Poi, per i 150 anni successivi, hanno governato gli inglesi.
Eppure la cultura dominante è quella francese.
L'inglese è la lingua ufficiale, ma la maggior parte degli abitanti parla francese o creolo francese.
I negozi sono tutti "quincailleries, tabagies, boucheries".
Perfino il nome dell'isola, pur essendo portoghese, si pronuncia alla francese, con due sillabe invece di tre.

MADAGASCAR ( ISOLA DI "RODRIGUES").

TERRENO VULCANICO.

Eppure, nonostante la scomparsa della foresta, l'isola è ancora straordinariamente bella.
Il promontorio lungo la strada costiera ha una striscia di deliziose baie di sabbia bianca.
Non ci sono bar sulla spiaggia, ombrelloni o altri oggetti balneari.
Nè si vedono i venditori ambulanti, le massaggiatrici e i camerieri che, invece, riempono le spiagge di Mauritius.
Mentre gran parte della costa della "sorella maggiore" è stata privatizzata dagli alberghi di lusso, a Rodrigues tutte le spiagge sono pubbliche.
Ma con una grande differenza: qui il pubblico non c'è.
A Trou d'Argent, la lingua di sabbia più fotografata dell'isola, gli unici segni di vita sono una mucca stesa nell'erba dietro la spiaggia e una gallina con i suoi pulcini che beccano tra gli scogli.
Ed è proprio l'assenza di alberghi, ristoranti e intrattenimenti per stranieri a rendere l'isola così affascinante.
I turisti sono così pochi che le persone sembrano sinceramente felici quando ne incontrano uno.
Mi sposto nella pensione più lussuosa di Rodrigues, Cases à Gardénias.
I proprietari (Fernand Verbeeck, belga e Marie-Line Comarmond, che appartiene a una delle più importanti famiglie di Mauritius) prima di trasferirsi a Rodrigues vivevano in un castello a Bordeaux: gran parte dei mobili, dei quadri e della cristalleria arriva da lì.
Le camere sono arredate all'europea e circondate da incantevoli giardini.
Marie-Line prepara squisite conserve con la frutta e la verdura locali e si fa il vino da sola.
Come gran parte delle persone che ospitano i turisti, è un'ottima cuoca.
Una delle attrazioni principali di Rodrigues è la cucina creola.
Il terreno vulcanico dell'isola è ideale per la verdura, che è praticamente biologica (gli agricoltori non possono permettersi i pesticidi di importazione).
La carne locale - maiale, manzo e capretto - è molto buona, così come il polpo della laguna, che in genere è servito con insalata alla vinaigrette ed erba cipollina.
Ma l'alimento di base è il pesce.

lunedì 25 gennaio 2010

MADAGASCAR (ISOLA DI "RODRIGUES").

UN PUNTINO NELL'OCEANO.

"L'isola di Rodrigues, seicento chilometri a est di Mauritius, offre un'atmosfera rilassata, spiagge deserte e un'ottima cucina creola".

Claude Moneret mi apre la porta a piedi nudi.
E' una donna robusta e sorridente.
Sta preparando il pranzo: pesce al curry con melanzane sottaceto.
Mi fa accomodare nella veranda della sua pensione e mi porta un bicchiere di punch al rum.
Siamo a pochi passi da una spiaggia color corallo, punteggiata di palme da cocco e alberi di Casuarina.
Intontito dal jet lag, so che tutto questo mi ricorda qualcosa, ma cosa?
I Caraibi?
Il sud del Pacifico?
L'Africa occidentale?
Tutti questi posti insieme?
Rodrigues è un'isola talmente sperduta che soltanto gli atlanti migliori ne segnalano l'esistenza.
Quando l'ho sentita nominare per la prima volta pensavo fosse uno di quegli scogli disabitati e spazzati dal vento in mezzo ai mari del sud, magari una base militare o un minuscolo atollo polinesiano.
Poi l'ho cercata su Google: isola dell'oceano Indiano, seicento chilometri a est di Mauritius.
Deve il suo nome all'omonimo esploratore portoghese.
Abitanti 40mila, religione cattolica.
Ultimo brandello d'Africa prima di raggiungere l'Asia sudorientale, Rodrigues fa parte del territorio di Mauritius.
Spesso le due isole sono definite gemelle, anche se in realtà hanno ben poco in comune.
Mauritius è verde e rigogliosa, con foreste tropicali che si alternano a vasti campi di canna da zucchero.
Rodrigues, invece, è arida e rocciosa.
E non c'è traccia di canna da zucchero.
E' un fatto paradossale, se si pensa che il 97 per cento della popolazione discende dagli schiavi africani deportati per lavorare nelle piantagioni.
Soltanto due tratte aeree raggiungono quotidianamente Rodrigues.
L'unica alternativa è una attraversata di 36 ore a bordo della nave merci, il principale legame commerciale dell'isola con il resto del mondo.
Dopo dodici ore di volo, il ronzio del motore a turboelica mi concilia il sonno.
Al risveglio scopro un mondo tinto di blu: il blu-azzurro del cielo, il blu scuro del mare e una gigantesca macchia di turchese brillante: l'ampia laguna, grande due volta l'isola.
E' la principale risorsa naturale di Rodrigues.
Da un punto di vista economico, l'isola non ha molto da offrire: non troverete industrie o pesca commerciale, e neanche le infrastutture turistiche di Mauritius.
Qui ogni famiglia ha il suo orto, i suoi alberi da frutto, i suoi maiali e le sue capre.
Alcuni uomini hanno dei piccoli pescherecci, mentre le donne vanno a caccia di polpi nella laguna.
L'industria turistica di Rodrigues consiste in una manciata di alberghi a tre stelle e una quarantina di pensioni (le "chambres d'Hotels o gites"), dove si vive insieme alle famiglie creole, condividendo l'ottima cucina.
Chez Claudine è uno di questi posti.
E' una costruzione a forma di chalet nel paesino di Saint Francois, in una silenziosa vallata dove pascolano le capre.
Sulla finestra della stanza di fronte c'è scritto "Joyeux noel" (buon natale) con uno spray bianco.
Adesso siamo a marzo, e questo la dice lunga sui ritmi di vita di Rodrigues.
Un tempo l'isola era ricoperta da una fitta foresta d'ebano.
C'erano centinaia di tartarughe giganti che passeggiavano per l'isola e i rami accoglievano specie rarissime di uccelli.
Poi a colonizzare l'isola sono arrivati gli uomini, provocando un disastro ecologico.
Gran parte della foresta è andata persa e con lei quasi tutti gli uccelli, anche se ultimamente alcune specie native sono state salvate dall'estinzione.
MADAGASCAR (ISOLA DI "RODRIGUES").

INFORMAZIONI PRATICHE.

ARRIVARE.
Il prezzo di un volo dall'Italia (Air Mauritius, Alitalia, Air France) per l'isola di Rodrigues parte da 1.097 euro a/r.
L'isola può anche essere raggiunta da Mauritius con un volo giornaliero effettuato da Air Mauritius.
In alternativa con la nave merci che collega le due isole tre volte alla settimana.

CLIMA.
L'estate va da novembre ad aprile e il clima è caldo e umido.
La temperatura media è di 30 gradi.
L'inverno va da maggio a ottobre e il clima (in media 24 gradi) è rinfrescato dai venti alisei.

DORMIRE.
A Saint Francois, chez Claudine offre una doppia per 60 euro a notte (00230 831 8242, snipurl.com/it4qq).
La Fantaisie mountains lodges (fantaisierodrigues.com) si trova in collina, nell'interno, e offre stanze, appartamenti e bungalow in stile creolo a partire da 30 euro a persona.
A MIO AVVISO E' UTILE SAPERE CHE:
In Italia esiste una attività che da più di 35 anni produce e commercializza "BANDIERE E RELATIVI ACCESSORI", da utilizzo sia per interni che per esterni, partendo dalle bandierine di tavolo e arrivando fino ai pennoni in alluminio oppure in vetroresina da mt. 5 a mt. 40.
L'attività in oggetto è la "B.A.F.A. BANDIERE" (vedi catalogo in internet).
PROFILO DELL'AUTORE E INDICE VIAGGI A INIZIO BLOG "ERMANNO RARIS".

domenica 24 gennaio 2010

BERLINO - ASTANA (IN TRENO).

FORESTE DI BETULLE.

Lo seguo fino al binario, dove le carrozze dirette in Kazakistan sono state attaccate a un treno per Kiev.
Non resta molta gente.
Io e una giovane russa siamo gli unici passeggeri del vagone letto in partenza da Saratov.
Gli altri viaggiatori non possono permettersi la relativa comodità di viaggiare in un vagone letto a tre posti.
Anche se Raya cerca in tutti modi di farmi capire che è vietato, lascio la carrozza per andare a vedere com'è il vagone con le cuccette.
Qui i posti sono meno cari e lo scompartimento è pieno.
Solo pochi centimetri dividono una cuccetta dall'altra.
Quasi tutti indossano solo la biancheria intima e cercano di prendere sonno nonostante il caldo.
A bordo del treno il tempo scorre sorprendentemente veloce, anche perchè tutti i giorni cambiano fuso orario.
In assenza della mia amica Sabrina, gli unici passatempi sono bere, mangiare e guardare fuori dal finestrino.
Il mercoledì mattina gli uomini in uniforme fanno un'ultima apparizione.
Siamo alla frontiera kazaka.
Stavolta il treno riparte senza che gli agenti mi abbiano restituito il passaporto.
In servizio c'è Wadim: "Il mio passaporto?", gli chiedo, un po' agitato.
Lui mi fa capire che per cinquecento rubli può risolvere la faccenda.
Wadim sorride: ha vinto lui.
Dopo aver intascato il denaro, mi restituisce il passaporto.
Il paesaggio che scorre dal finestrino è diventato monotono.
Le foreste di betulle e le baracche di lamiera ondulata che si vedevano in Russia ormai sono lontane.
Siamo nella steppa, dove si vede solo erba.
Passo la mia prima notte in territorio kazaco.
Fuori scende la notte più nera.
Ore e ore senza scorgere neanche un'abitazione.
Di colpo, Raya fa irruzione nello scompartimento.
"Guarda, guarda!", esclama indicando il finestrino.
In lontananza brillano le luci di Astana, la capitale della steppa.
Il treno entra in stazione con otto minuti di ritardo.
Un tassista viene a prendermi sulla banchina.
Si impadronisce dei miei bagagli e si mette a correre sui binari in direzione del parcheggio.
Certo, c'è un'uscita ufficiale, mi spiega, ma così si accorcia la strada.
Raya passerà ancora una notte a bordo del treno.
Domani proseguirà fino a Taras, la città dove abita, a circa mille chilometri da Astana.
"Bye bye", mi dice, stampandomi un bacio sulla bocca.
"Do svidania", le rispondo, prima di lanciarmi all'inseguimento del tassista.
BERLINO - ASTANA (IN TRENO).

SABRINA SCENDE QUI.
"Abbia cura di sé", dice salutandomi.
Mi dispiace che se ne vada, era l'unica persona con cui potevo chiacchierare senza dover parlare a gesti o ricorrere al dizionario.
Raya cerca di spiegarmi a che ora devo tornare in stazione.
Il soprannome di "mamma del vagone" le sta a meraviglia.
Inoltre con me è particolarmente materna: mi stringe il braccio quando mi parla, entra nel mio scompartimento senza bussare e si arrabbia quando fumo troppo o quando dimentico di fare il letto.
Credo di piacerle.
Dopo qualche ora passata a vagare per le strade commerciali di Saratov, intorno alla stazione, incontro Wadim, l'altro controllore della mia carrozza.
Ha lasciato la divisa per indossare una T-shirt e una tuta da jogging.
Senza dire una parola mi fa segno di seguirlo, e mi porta in un self-service lì vicino.
Wadim non è un commensale particolarmente piacevole: chino sul piatto, ingurgita grandi cucchiaiate di zuppa e mangia la carne senza tagliarla, dopo averla infilzata con la forchetta.
Pretende che gli paghi il pranzo: accetto perchè comunque mi sta simpatico.
E' un gran fumatore e per strada non può fare a meno di sputare ogni due metri.
Quando incontriamo delle ragazze, ridacchia e dice "Good girls, good", alzando il pollice.
Tornati alla stazione, mi chiede altri soldi.
"Money, money, dice, indicando il mio portafoglio.
Rifiuto e sembra quasi che Wadim voglia picchiarmi.
Per un attimo ho paura, ma poi mi rendo conto che se facessimo a botte
probabilmente avrei la meglio.

venerdì 22 gennaio 2010

BERLINO - ASTANA (In treno).

DORMIRE IN MUTANDE.
Il treno avanza nell'oscurità a un ritmo irregolare.
Ci si abitua in fretta al rumore, un sottofondo ideale per le conversazioni.
E le chiacchierate non mancano.
Sabrina mi parla di suo fratello e di sua nonna.
Alla fine degli anni novanta, tutti e tre sono emigrati in Germania in cerca di una vita migliore.
Sabrina deve occuparsi di sua nonna, che è anziana e ammalata.
I soldi che il fratello guadagna facendo piccoli lavoretti devono bastare per tutti e tre.
Sabrina fa il meccanico, ma non riesce a trovare lavoro.
Ormai non si sente a casa né in Kazakistan né in Germania.
Astana è la capitale del Kazakistan da una decina d'anni.
Gli introiti petroliferi hanno provocato un boom edilizio, e i nuovi grattacieli spuntano come i funghi.
"Negli ultimi anni sono tornata tre volte ad Astana", mi racconta Sabrina, "e ogni volta la città era cambiata.
Ormai non la riconosco più".
Di notte, il treno diventa una vera e propria stufa.
I termosifoni sono al massimo e non si possono regolare né spegnere.
Anche se dormo in mutande, coperto solo dal lenzuolo, continuo a svegliarmi zuppo di sudore.
Cerco di mantenere un minimo di igiene lavandomi nel piccolo lavandino.
Non ci sono docce a bordo del D 1249.
Nel pomeriggio di lunedì, il treno arriva a Saratov, sulle rive del Volga, dove ci fermiamo per otto ore.
Un'occasione per sgranchirci le gambe dopo quarantasei ore di viaggio.

BERLINO - ASTANA (IN TRENO).

LA CAPITALE DELLA STEPPA.

"A bordo del treno D 1249, che da Berlino arriva fino ad Astana, in Kazakistan.
Quattromila chilometri attraverso quattro fusi orari".

Gli uomini in uniforme arrivano sempre nel cuore della notte.
Ogni volta mi sveglio sotto la luce accecante di un neon.
Sono le 3.20 del mattino di domenica, e siamo alla frontiera tra la Polonia e la Bielorussia.
Raya, che controlla i biglietti, apre la porta del mio scompartimento e urla: "Wstawaj".
Lo interpreto come un invito ad alzarmi.
I doganieri mi chiedono di aprire la valigia.
Mi alzo, in mutande e con le palpebre gonfie di sonno.
Dopo una rapida ispezione dei bagagli, i doganieri spariscono con il mio passaporto.
Me lo restituiranno dopo averci messo dei timbri di tutti i colori.
Bisognerà aspettare ancora due ore prima che il treno riparta.
Raya spegne il neon e nel vagone ritorna la calma, almeno per stanotte.
Sarò tirato giù dal letto molte altre volte dagli uomini in uniforme: c'è ancora tanta strada da fare per il Kazakistan.
Sono a bordo del D 1249.
Questa sigla nasconde un convoglio molto particolare: di tutti i treni che partono dalla Germania, è quello che percorre più chilometri.
Ogni sabato il D 1249 lascia Berlino per raggiungere Astana, la capitale del Kazakistan.
Durata del viaggio: novantotto ore e cinquantasei minuti.
Un tragitto di più di quattromila chilometri, che attraversa quattro fusi orari prima di arrivare nelle steppe dell'Asia centrale.
Alle tre del pomeriggio, nella stazione berlinese, Astana sembra ancora in capo al mondo.
Sul binario alcune donne anziane, avvolte da lunghi mantelli, aspettano la partenza del treno.
Gli uomini fumano circondati dalle valigie e dai sacchetti del supermercato Lidl.
Non riuscendo a trovare il numero delle carrozze, salgono sul primo vagone.
Trascinando un grosso zaino e una valigia, cerco di farmi strada nello stretto corridoio.
"Dov'è la carrozza 261, scompartimento 2?", chiedo in tedesco.
Nessuno mi capisce.
Siamo ancora a Berlino, ma per comunicare si usa già il russo.
C'è qualcuno che può aiutarmi? Niet.
Raya è l'unica che sappia cosa cerco: è una signora anziana, grassoccia, con i lineamenti sottili e gli occhi penetranti.
E' l'addetta al vagone dei passeggeri diretti ad Astana.
I russi la chiamano "la mamma del vagone" : vigila su di noi e sveglia i passeggeri quando salgono sul treno i doganieri.
Inoltre offre del tè a chi ha sete.
Mi mostra lo scompartimento di cinque metri quadrati dove vivrò nei prossimi cinque giorni.
Ha tre letti, ma durante il tragitto nessun altro viaggiatore verrà a tenermi compagnia.
Evidentemente questo treno non attira folle di passeggeri.
L'arredamento sa di vecchio.
Tende bianche ai finestrini e tappetino blu sul pavimento.
Sotto l'armadio della toilette c'è un piccolo lavandino, coperto da un ripiano pieghevole.
Sui treni russi è ancora permesso fumare.
Una scatoletta di metallo appesa alla porta del vagone fa da portacenere.
Sabrina, originaria di Chemnitz, è un'habitué di questo treno.
E' cresciuta ad Astana, la meta del mio viaggio.
Ma questa volta scende a Saratov, in Russia.
Va al matrimonio di un cugino.

giovedì 21 gennaio 2010

BERLINO - ASTANA.

INFORMAZIONI PRATICHE.

DOCUMENTI.
Per andare in Kazakistan è necessario il visto turistico.
I paesi attraversati dal treno per cui è richiesto un visto di transito sono Bielorussia e Russia.
Conviene contattare le ambasciate con largo anticipo.

VOLI.
Dall'Italia ci sono diverse compagnie aeree low cost per Berlino.
Tra queste: Air Berlin, Easy Jet e TUlfly. il prezzo di un volo da Astana (Air Astana, Alitalia, Lufthansa) verso l'Italia parte da 488 euro a/r.

TRENO.
Per qualsiasi informazione contattare il servizio City night line della Deutsche Bahn, le ferrovie tedesche (www.bahn.de, 0049 1805 141 514).
Prima di salire conviene comprare da mangiare e da bere perchè su alcune tratte non c'è il vagone ristorante.
La partenza è ogni sabato, alle 15.15, dalla stazione di Berlino Hauptbhnhof.
Si arriva ad Astana il mercoledì sucessivo alle 22.37.
Un biglietto di sola andata in uno scompartimento a tre posti costa 285 euro.
E' GIUSTO SAPERE:
Ho deciso di offrire a chi piace viaggiare (con la fantasia oppure in prima persona) una possibilità di scegliere degli intinerari prevalentemente avventurosi, che si distinguono per la loro diversità dai viaggi tradizionali.
Le descrizioni le traggo dal settimanale "INTERNAZIONALE" del quale sono abbonato ed affezionato lettore di tutti gli articoli che lo compongono.
Spero di fare cosa gradita a quanti mi leggeranno, ed auguro a tutti una piacevole lettura.
ERMANNO RARIS
PROFILO DELL'AUTORE E INDICE VIAGGI A INIZIO BLOG "ERMANNO RARIS".

mercoledì 20 gennaio 2010

KOSOVO.

POLLI PER TORNARE A CASA.

Tatiana si sposta in macchina perchè, come tutti quelli che possono permetterselo, ha due targhe diverse, una della repubblica del Kosovo (Ks), l'altra del "Kosovo serbo".
"Mi sono costate 1.500 euro", racconta.
"In ogni modo non so cosa mi succederà il giorno che avrò un incidente stradale, visto che non conosco neanche una parola di albanese".
Il Kosovo ha una sola centrale elettrica, vicino Pristina.
Una centrale che non rispetta nessuna delle norme per la tutela dell'ambiente.
La comunità internazionale ha investito cinquecento milioni di euro per modernizzarla, ma è stato inutile.
Stefan, dipendente di una ong, mi ha dato un passaggio nella regione di Gjakova, "Da queste parti non abbiamo l'abitudine di pagare l'elettricità", mi spiega.
"Non lo facevamo sotto Milosevic e non lo facciamo neanche oggi.
In compenso molti hanno comprato un generatore.
Tutti i negozi, i parrucchieri, i caffè ne hanno uno.
Quando non c'è corrente, si sente il loro ronzio in tutta la città.
E' molto più caro della bolletta, ma non si può fare diversamente.
La centrale, infatti, vive solo grazie all'energia che esporta in Macedonia".
Incontro di nuovo il fuoristrada di Florant e Dusan, la jeep dell'amicizia serbo-albanese.
Ci fermiamo nel villaggio di Biljak.
Una decina di case in costruzione, una piccola moschea e una chiesa ortodossa.
Il sindaco, un albanese, ha fatto parlare di sè perchè ha annunciato che avrebbe offerto polli ai serbi che avessero deciso di vivere nel suo villaggio.
I miei due amici vogliono saperne di più su questa offerta.
"Dopo il 1999 tutti i serbi sono andati via per paura delle rappresaglie.
Ma non tutti hanno potuto rifarsi una vita in Serbia", spiega il sindaco.
"Oggi Belgrado protesta contro la nostra indipendenza, ma in Serbia i serbi del Kosovo non sono trattati bene.
Negli ultimi quattro anni dodici famiglie sono tornate.
Ricostruiamo la loro casa e li aiutiamo a reinserirsi.
E' l'Onu che paga.
Ma non basta, perchè qui non hanno lavoro.
Per questo abbiamo pensato di dargli i polli.
Così possono creare dei piccoli allevamenti e vendere le uova e i polli, oltre ad avere da mangiare".Forse questa iniziativa permetterà ai serbi di tornare.
"Ma a che cosa serve tutto questo se non riuscite ad andare d'accordo?. chiedo.
"A dimostrare che in Kosovo non sono maltrattati.
E poi le Nazioni Unite finanziano l'acquisto dei polli, perchè non approfittarne?".
KOSOVO.

IL GRAND HOTEL, nel centro di Pristina, è una vera e propria leggenda: si dice che è il peggiore albergo a cinque stelle del mondo.
Una quindicina di camerieri aspettano i clienti in una sala da pranzo vuota.
Ma prima di essere serviti ci vuole lo stesso un'infinità di tempo.
"E adesso è meglio di prima", sospira Ardita, un'amica con cui ho appuntamento qui.
"Prima c'era una sorta di apartheid, solo i serbi avevano il diritto di lavorarci".
"Oggi invece non ce nè più neanche uno", obietto io.
Ardita alza le spalle.
"Sono serba ma ho problemi molto più importanti dell'indipendenza del Kosovo", mi dice Tatiana, proprietaria di un negozio di scarpe nell'enclave serba di Strpce.Mi ha dato un passaggio sulla strada per Prizren, affermando con orgoglio che nessuna albanese avrebbe mai avuto il coraggio di parlare con uno sconosciuto.
"Quali problemi?
Il mio tetto fa acqua da tutte le parti e non ho i soldi per ripararlo.
E questa elettricità del c...o!".
Attraversiamo i monti Sar sulla sua Opel.
Passiamo accanto a un monumento in memoria dell'esercito di liberazione del Kosovo (Uck) e accanto a un posto di blocco della kfor (la forza di pace della Nato in Kosovo).
Tocca agli ucraini e ai polacchi vigilare sulla sicurezza dei serbi.
Una piccola chiesa ortodossa a destra della strada è il segno che siamo entrati nell'enclave di Strpce.
Le chiedo: "L'elettricità?".
Tatiana sospira.
"Guardati attorno, la gente vive al lume di candela.
Pensi che sia una scelta romantica?
L'elettricità manca quattro ore al giorno e a volte per giornate intere.
Non sai mai quando tornerà.
Non posso fare il bucato, non posso lavare i piatti o farmi la doccia.
Durante l'inverno il buio arriva presto.
C'è chi pensa che sia per colpa della mancanza di corrente che ci sono così tanti bambini in Kosovo.
Qui la gente è convinta che gli albanesi tolgono la corrente ai serbi.
Ma sono stata a Prizren e anche lì non c'è corrente".
Due volte alla settimana alcuni autobus scortati dai soldati della Kfor vanno da Strpce fino alla frontiera serba o a Gracanica, la più grande enclave serba del Kosovo.
Al loro passaggio gli albanesi tirano sassi o lanciano petardi.
KOSOVO.

"CONOSCO IL PROPRIETARIO dell'autolavaggio, gira con una Maybach (un'auto di lusso tedesca).
Io ho una fabbrica di mobili e duecento dipendenti, mentre lui ha solo un autolavaggio", mi racconta Megrim.
Continuo a non capire.
"L'autolavaggio ricicla denaro sporco e il fisco vuole sapere come ha fatto a guadagnare un milione di dollari.
Ogni volta il proprietario risponde che si è ammazzato di lavoro lavando mezzo milione di auto.
Tutti sanno che non è vero, ma da queste parti le cose vanno così".
Come molti altri suoi connazionali, Megrim è partito dal Kosovo per la Germania nel 1999, durante il periodo più aspro del conflitto.
E qualche anno più tardi è tornato per mettersi in affari.
"Il mondo non sa nulla del Kosovo", mi spiega un amico ingegnere.
"Sapete solo in che anno c'è stata la guerra e dove trovarlo in una carta geografica.
Credete a tutto quello che vi dicono.
Pensate che qui ci siano in continuazione attentati e che le donne siano vestite come in Afganistan.
In realtà è un paese simile al resto dell'Europa, solo un po' più povero".
Poi abbiamo parlato degli automobilisti kosovari.
Al contrario di quello che si racconta, guidano in modo relativamente prudente.
"Perchè quando c'erano i serbi la polizia frustava gli automobilisti indisciplinati in piazza.
Alcuni venivano addirittura fucilati".
Silenzio.
Poi il mio amico scoppia a ridere.
"Lo vedi, credi a tutto quello che ti si dice".
Quelli che come Megrim hanno avuto successo all'estero, non esitano a investire in Kosovo.
L'albergo Begolli, dove ho alloggiato a Pristina, è un esempio.
C'è una jacuzzi in ogni camera, ma l'arredamento è in finto stile Luigi Sedicesimo.
Il fatto che non ci sia acqua o che le sedie traballino non ha importanza.
KOSOVO.

MERCEDES NERA E VETRI OSCURATI.

Quando ai bordi della strada alzo il pollice verso l'alto nessuna delle auto rallenta, alcune sembrano addirittura accelerare.
Molti dei guidatori mi guardano come se fossi un animale sconosciuto.
Qualche anziano mi sorride.
Passa una colonna di veicoli militari.
Un ragazzo che lavora alla stazione di benzina dove mi hanno lasciato dopo il primo passaggio mi suggerisce una stazione di pullman a cinquecento metri di distanza.
"Perchè non noleggi un'auto?", mi chiede.
"Voglio parlare con la gente del posto", rispondo.
Qualche minuto dopo si ferma una Mercedes nera con i vetri oscurati.
L'uomo al volante si chiama Megrim.
Mi sento il cuore in gola, ma lui sfoggia un gran sorriso e indica con il dito l'autolavaggio: "La vera mafia è questa".
Non capisco cosa vuole dire, ma decido comunque di accettare un passaggio.
Spero non voglia rivendere i miei reni al mercato nero.

martedì 19 gennaio 2010

KOSOVO.

A POLLICE ALZATO.

"Il Kosovo in autostop.
Sfatando il luogo comune su quanto sia rischioso chiedere un passaggio nel più giovane stato europeo".

Sono su una jeep diretto a Pristina.
A guidarla è un albanese, Florant, e accanto a lui c'è Dusan, un serbo.
Entrambi sono di Mitrovica (la città del Kosovo settentrionale divisa in due: una parte serba e l'altra albanese).
Qui i rapporti tra le due comunità sono tesi.
A causa degli scontri è morto un casco blu ucraino e sono stati feriti venti poliziotti polacchi.
Mi aspetto il peggio.
Litigheranno, si picchieranno, si uccideranno?
"Come mai viaggiate insieme?", chiedo.
"Ci odiamo, ma la benzina è troppo cara", spiega Florant, poi i due scoppiano a ridere.
"Ci conosciamo fin da piccoli, giocavamo a calcio insieme.
Nulla lasciava pensare che la Jugoslavia sarebbe esplosa.
I miei genitori vivevano nella parte albanese della città e ancora oggi molti dei loro amici vivono lì", mi spiega Dusan.
Serbi e albanesi amici tra loro, oggi sembra irreale.
Tutte le persone che ho incontrato mi hanno consigliato di fare l'autostop da queste parti: "I kosovari guidano come matti e pensano solo a rubarti tutto fino all'ultimo centesimo".
Questo è quello che mi dicevano gli stranieri con cui avevo preso il caffè a Pristina.
"Le Nazioni Unite li hanno viziati e sono troppo abituati ai soldi facili.
Nel migliore dei casi incontrerai un delinquente che ti lascerà nudo in mezzo a un campo minato", mi ha messo in guardia un amico.
"Fai attenzione alle Mercedes con i vetri oscurati!", mi ha detto un altro.
"E' la mafia. Ti uccideranno per vendere i tuoi organi ".
Non gli ho dato ascolto, perchè volevo incontrare i kosovari all'indomani della nascita della più giovane nazione europea.
Bere il loro caffè, assaggiare il loro pane, ridere con loro.
Così ho fatto l'autostop alla periferia di Pristina, in direzione di Peja.
Il Kosovo è un posto incredibile: durante i trenta minuti in auto l'operatore di telefonia mobile è cambiato tre volte.
Prima quello di Montecarlo, che ha in appalto il servizio locale.
E visto che il Kosovo non ha un prefisso internazionale bisogna fare il numero del principato.
Vicino alla frontiera macedone, invece, bisogna comporre il prefisso della Macedonia.
E quando passiamo da un'enclave serba l'operatore è di Belgrado.
Durante il tragitto vedo spesso della spazzatura ai bordi della strada.
Il fiume che attraversava Pristina è stato ostruito dai rifiuti e le autorità hanno deciso di gettarci sopra del cemento e di costruire delle case popolari.
Il tipico paesaggio kosovaro: un mucchio di spazzatura, ferraglia sparsa per diversi chilometri, poi un altro mucchio di spazzatura.
KOSOVO.

INFORMAZIONI PRATICHE.

ARRIVARE E MUOVERSI.
Il prezzo di un volo dall'Italia (Malev, Austrian Airlines, Croatia Airlines) per Pristina parte da 310 euro a/r.
Da Skopje, in Macedonia, ci sono due collegamenti ferroviari giornalieri, alle 6.24 e alle 13.04, per una delle stazioni di Pristina (la Fushekosovestation).
Il viaggio dura due ore e mezza e il biglietto costa 10 euro.
Le più importanti città del paese (Pristina, Prizren e Peja) sono collegate da un servizio di autobus.

AUTOSTOP.
Hitchwiki.org è una guida online con blog, mappe e consigli pratici.

ESCURSIONI.
Gran parte del Kosovo è stato sminato, ma per fare dei percorsi poco battuti è meglio avvertire la polizia o l'unità delle forze Nato per il Kosovo (Kfor).

DORMIRE.
L'Afa hotel (hotelafa.com), a dieci minuti a piedi dal centro di Pristina.
Collegamento wi-fi e un'ottima colazione.

A MIO AVVISO E' UTILE SAPERE CHE:
In Italia esiste una attività che da più di 35 anni produce e commercializza "BANDIERE E RELATIVI ACCESSORI", da utilizzo sia per interni che per esterni, partendo dalle bandierine da tavolo e arrivando fino ai pennoni in alluminio oppure in vetroresina da mt. 5 a mt 40.
L'attività in oggetto è la "B.AF.A. BANDIERE" (vedi catalogo in internet).
PROFILO DELL'AUTORE E INDICE VIAGGI A INIZIO BLOG "ERMANNO RARIS".
VIETNAM (VALLE DI "MAI CHAU").

OTTIMISMO E PATRIOTTISMO.

A Hue, la vecchia capitale imperiale, è possibile dormire in un nuovissimo albergo a cinque stelle che si affaccia sulla cittadella, scenario della gloriosa liberazione del Vietnam.
E' qui che l'esercito nordvietnamita sconfisse gli Stati Uniti innalzando la bandiera gialla e rossa.
Oggi gli imperialisti statunitensi tornano, come ospiti paganti.
Ho Chi Minh City, la vecchia Saigon, è una metropoli affollata e in grande crescita, brulicante come un formicaio.
La gente qui considera gli abitanti di Hanoi delle persone tirchie e snob.
Nella capitale, invece, quelli del sud sono considerati spendaccioni e volgari.
Vicino a Ho Chi Minh City c'è un famoso sito turistico, le gallerie di Cu Chi, considerate la dimostrazione più straordinaria di come un paese contadino e arretrato sia riuscito a sconfiggere il più grande esercito del mondo.
Le gallerie di Cu Chi erano un nascondiglio dei vietcong.
Un labirinto sotterraneo che si estende per centinaia di chilometri, con tanto di sale ospedaliere.
Durante i loro agguati i vietcong si rifugiavano nelle gallerie: sembravano sbucare dal nulla per poi scomparire di nuovo.
Una persona comune non sarebbe in grado di resistere nemmeno cinque minuti lì sotto.
Per attraversare le gallerie bisogna accucciarsi e il caldo è soffocante.
Alcuni passaggi sono stati allargati per far passare le "patate".
Il momento più interessante della visita è rappresentato da una serie di trappole sotterranee progettate per impalmare i nemici su canne di bambù appuntite.
Le trappole non hanno mai causato grandi danni, ma gli effetti sul morale del nemico erano devastanti.
All'uscita, il banco dei souvenir fa affari d'oro.
Oggi il Vietnam è un paese ottimista e patriottico.
E perchè non dovrebbe?
Ha sconfitto Francia, Stati Uniti, Cina e Giappone.
E' ancora uno stato autoritario, dominato da un partito unico che ormai di comunista ha solo il nome.
Il tempo dei sacrifici è finito, ed è arrivato il momento di spendere e spandere.
"Zio Ho" resterebbe sbalordito di fronte alla sua creatura.
Ma chissà se ne sarebbe contento.
Nella città che oggi porta il suo nome, in cima a un grattacielo, una gigantesca insegna al neon brilla nel cielo notturno: "Usa success", si legge.
Certo, gli imperialisti hanno perso una battaglia.
Ma è il capitalismo americano che sta vincendo la guerra.
E la gente fa a gara per arrendersi.




lunedì 18 gennaio 2010

VIETNAM (VALLE DI "MAI CHAU").

PROGRESSO DIETRO L'ANGOLO.

Dopo cena (fortunatamente ci siamo portati dietro da mangiare e cuciniamo noi) non c'è niente da fare.
E' buio e manca l'elettricità.
Duc allora accende il suo computer portatile e ci fa vedere un film d'azione piratato.
Grazie alla sua scorta aggiornata di film è sempre il ben venuto nel villaggio.
Il progresso è dietro l'angolo.
Nuove strade attraversano la valle di Mai Chau.
I sentieri per il bestiame si sono trasformati in carreggiate per motorini, e la lamiera comincia a rimpiazzare i tetti di paglia.
Lungo la strada principale la gente sostituisce le vecchie capanne di legno con case di cemento a tre piani dai colori sgargianti.
La vita del villaggio sta cambiando.
I giovani se ne vanno, attratti dalle luci di Hanoi.
E le famiglie sono sempre meno numerose.
Quest'anno si celebra il quarantesimo anniversario del massacro di My Lai, dal nome del villaggio dove i soldati statunitensi trucidarono centinaia di civili.
Come sempre, decine di americani sono venuti in segno di rispetto e per chiedere scusa.
Nessun rancore.
La riconciliazione fa bene agli affari, e comunque oggi la maggior parte dei vietnamiti è nata dopo la fine della guerra.
Le cose migliori del passato coloniale sono state ricreate per gli stranieri.
Ad Hanoi si può gustare un drink al Metropole, dove, Grahame Greene e i personaggi del suo romanzo, "Un americano tranquillo", bevevano Martini.


VIETNAM (VALLE DI "MAI CHAU").

LA CAPITALE HANOI conserva tutto il suo fascino: è piena di magnifici templi e non ci sono ancora Starbucks o McDonald's.
Nel quartiere vecchio le botteghe traboccano di merci di ogni tipo: bare, rimedi naturali, scarpe, e tutto quello che si può fare con la seta.
Ma non è più la città di dieci anni fa, quando la gente girava in bicicletta per le strade del quartiere.
Oggi la maggior parte della popolazione usa il motorino.
L'unico modo che hanno i pedoni per attraversare la strada è gettarsi in mezzo al traffico.
Come per miracolo le acque si aprono, secondo regole note solo ai vietnamiti.
Ad Hanoi ci sono molti occidentali, sopratutto europei.
Non è più economica come un tempo e una camera d'albergo costa in media 90 dollari a notte.
L'inglese del personale lascia un po' a desiderare, ma il servizio è impeccabile.
Duc chiama i turisti "patate", perchè in vietnamita la parola "turista" ha un suono simile a quello della parola "patata".
E anche perchè spesso i turisti sono grossi, bianchi e goffi.
Mentre in Vietnam la gente è snella e aggraziata.
Le liceali, nei loro incantevoli "ao dai", sono un'immagine intramontabile di bellezza femminile.
Ma noi turisti, anche se somigliamo alle patate, non siamo completamente rammolliti.
Per dimostrarlo decido di fare una gita in collina, trascorrendo un paio di notti con le famiglie locali.
Partiamo per Mai Chau, una valle dal panorama spettacolare a poche ore da Hanoi, e ci lasciamo alle spalle le strade asfaltate, gli ingorghi e le modernità.
Durante il viaggio vediamo le donne, con i tipici cappelli a forma di cono, nei campi di riso.
Alla fine di un sentiero fangoso c'è il villaggio dove passeremo la notte.
Nel Vietnam settentrionale ci sono decine di gruppi etnici.
Le donne hmong portano enormi gonne ricamati e imparano a cucire appena riescono a tenere in mano l'ago.
Le famiglie vivono in case di legno buie di due stanze: una grande per dormire, una piccola e fumosa per cucinare.
Dalle travi del soffitto pendono grumi di fuliggine.
Cerco invano di fare conversazione con un paio di ragazze più grandi, che ridacchiano indicando le mie unghie dei piedi smaltate di rosso.
Secondo Duc, gli hmong sono arretrati.
Non si curano dell'istruzione e non sono molto puliti.
La loro è una dieta molto semplice: riso, radici di sedano, un pezzo di salciccia e per i bambini dello zucchero di canna da succhiare.
Poi Duc sorride allegramente mentre noi tratteniamo a stento un conato di vomito.
"La carne di cane è buonissima!", insiste.
Il villaggio hmong non è rimasto del tutto immune al progresso.
Alcune case hanno la parabola satellitare e le donne portano le Crocs.
Un negozio alla periferia del villaggio vende patatine e bibite gassate.
Presto, c'è da scommetterci, ci sarà un internet point.
Ogni famiglia ha un motorino e nel villaggio spicca la grossa Jeep del trafficante che contrabbanda oppio dal Laos.

sabato 16 gennaio 2010

VIETNAM (VALLE DI "MAI CHAU").

COCKTAIL VIETNAMITA.

"Una sosta al gigantesco mausoleo dedicato a Ho Chi Minh, prima di godersi gli splendidi panorami della valle di Mai Chau".

Nel santuario più famoso del Vietnam non ci sono nè buddha nè incensi nè offerte.
E' il più brutto del paese.
A pensarci bene, non sembra neanche vietnamita.
E' il gigantesco mausoleo che contiene i resti terreni di Ho CHI Minh.
E' qui che studenti, reduci di guerra e patrioti vengono a rendere omaggio al padre della patria, oggi splendidamente imbalsamato sotto vetro.
Ho Chi Minh non avrebbe gradito questa sistemazione.
Voleva essere cremato.
Una volta scrisse: "Non solo la cremazione è meglio dal punto di vista igienico, ma inoltre aiuta a preservare la terra".
Ho Chi Minh non si porta affatto male i suoi 118 anni: ha l'aria saggia e gentile, proprio come nei trattati appesi in tutte le case nordvietnamite.
Tutti lo chiamano affettuosamente "zio Ho".
L'uomo che 33 anni fa riunificò il paese è ancora molto amato.
Ma per i più giovani le sue guerre appartengono al passato.
"Non ci interessa la storia o la politica, vogliamo solo essere occidentali", dice Nguyen Huu Duc, 26 anni.
Duc è la nostra guida.
Come tutti i suoi amici ammira l'America: la libertà personale, la tecnologia e la sfrontatezza.
I ragazzi divorano i film piratati.
Parlano il linguaggio universale del consumismo.
Le loro sorelle minori portano zainetti di Barbie Fashion.
In una casa, mentre beviamo il tè, il tipico ritratto di zio Ho guarda un gigantesco poster della Disney con Topolino e Minnie.
E non sono solo i ragazzi a pensarla così.
Fuori dal mausoleo di Ho Chi Minh chiacchieriamo con un anziano reduce di guerra.
Oggi fa il conducente di risciò.
Ha perso un occhio durante un bombardamento statunitense.
"Che pensa oggi degli americani?", gli chiedo.
"Non ho problemi con loro", risponde.
Perfino per chi l'ha combattuta, ormai la guerra è acqua passata.
Anche grazie ai soldi.
Dopo la guerra i tempi sono stati duri.
I soldati che avevano combattuto a fianco degli americani sono stati mandati nei campi di rieducazione.
Mentre le scelte economiche del regime comunista impoverivano la popolazione.
Ma da quando il governo ha deciso di seguire l'esempio cinese, liberalizzando l'economia, il reddito ha cominciato a crescere a ritmi vertiginosi.
Oggi i vietnamiti sono più ricchi dei cambogiani e dei birmani.
Anche i contadini hanno motorini e tv.
"Qualche anno fa mia madre ha dato via due maiali per un televisore", spiega Duc.
Oggi basterebbe mezzo maiale.
VIETNAM (VALLE DI "MAI CHAU").

INFORMAZIONI PRATICHE.

ARRIVARE E MUOVERSI.
Per andare in Vietnam è necessario il visto.
Il costo di quello turistico varia in base alla durata: 60 euro, valida un mese, 70 euro, tre mesi.
Per maggiori informazioni conviene rivolgersi all'ambasciata vietnamita a Roma (06 6616 0726, vnembassy.it).
Il prezzo di un volo dall'Italia (Malaysia Airlines, Singapore Airlines, Thai) per Hanoi, oppure Ho Chi Minh City parte da 734 euro a/r.
Per viaggiare all'interno del paese ci si può spostare in aereo (vietnamair.com.vn).

CLIMA.
Da luglio a novembre, nel centronord del paese, c'è la "stagione dei tifoni".

SI CONSIGLIA.
Il Continental di Ho Chi Minh City (Saigon).
L'albergo storico dei corrispondenti di guerra.
Sulla terrazza piena di piante e dondoli coloniali si respira un'atmosfera meravigliosa.

venerdì 15 gennaio 2010

E' GIUSTO SAPERE:
Ho deciso di offrire a chi piace viaggiare (con la fantasia oppure in prima persona), una possibilità di scegliere degli intinerari prevalentemente avventurosi, che si distinguono per la loro diversità dai viaggi tradizionali.
Le descrizioni le traggo dal settimanale "INTERNAZIONALE" del quale sono abbonato ed affezionato lettore di tutti gli articoli che lo compongono.
Spero di fare cosa gradita a quanti mi leggeranno, ed auguro a tutti una piacevole lettura.
ERMANNO RARIS
PROFILO DELL'AUTORE E INDICE VIAGGI A INIZIO BLOG "ERMANNO RARIS"

giovedì 14 gennaio 2010

CINA (DESERTO DI "TAKLAMAKAN").

RICCHEZZA NON PER TUTTI.

Se per gli uiguri il deserto, con tutte le sue ricchezze, è un motivo di fierezza, per certi versi è anche una fonte di frustrazione: nonostante sia ricco di petrolio e di gas, non gli porta nessun profitto.
La ricchezza ostentata per le strade di Kashagar è riservata ai cinesi.
Nei primi sei mesi del 2008 la città ha registrato una crescita superiore al 30 per cento, ma solo pochi uiguri ne beneficiano.
A Khotan, nel sud del deserto, sono loro che estraggono la giada bianca, molto apprezzata anche oltre i confini della provincia.
Le imprese che la commercializzano, però, sono guidate da cinesi.
Il Taklamakan, insomma, rimane crudele con i suoi abitanti, anche se non per gli stessi motivi di un tempo.
Oggi il deserto è più semplice da attraversare, ma può ancora far soffrire.
E chi oltrepassa le porte della fortezza di Jiayuguan in direzione del Taklamakan, sa che potrebbe imbattersi in molti fantasmi.
CINA (DESERTO DI " TAKLAMAKAN").

PER VIVERE IN ZONE DESERTICHE come il Taklamakan bisogna essere pragmatici: "Non ci lasceremo imporre le ore dei pasti da burocrati che non sanno cosa significa vivere sotto il sole a picco", spiega l'autista di un autobus.
Se vi danno un appuntamento alle 8, vuol dire che è alle 10, ora di Pechino (quella il turista segue inevitabilmente).
Prendere la corriera per raggiungere Kashgar è senz'altro il modo più interessante di attraversare il Taklamakan.
Le trenta ore di viaggio su una strada asfaltata permettono di scoprire paesaggi quasi lunari, ma soprattutto di condividere la vita con persone molto cordiali.
L'affabilità contrasta con la freddezza dei cinesi, che sono sempre più numerosi.
Le autorità, infatti, li incoraggiano a stabilirsi nella regione.
Mentre nel 1949 rappresentavano il 6 per cento della popolazione locale, oggi i cinesi sono saliti al 41 per cento, contro il 45 per cento della comunità uiguri.
Nonostante il loro peso crescente, rimangono minoritari a Kashgar, dove gli uiguri rappresentano il 90 per cento dei 3,3 milioni di abitanti.
Qui il fossato tra le due comunità è particolarmente visibile.
I cinesi non si avventurano spesso nel bazar uiguro della città: preferiscono andare al nuovo centro commerciale con le scale mobili e i vigilanti all'entrata.
Se un tempo da queste parti transitavano i nobili e pacifici rappresentanti del buddismo, oggi il Taklamakan è teatro di violenze.
Il 4 agosto 2008 Kashgar è stata colpita da un attentato senza precedenti: sedici soldati cinesi sono stati uccisi da due guerriglieri che facevano parte di un gruppo separatista.
Pochi giorni dopo, diverse bombe sono esplose a Kuqa, sulla strada che collega Kashgar a Urumqi.
Quelle azioni erano chiaramente un modo per cercare di richiamare l'attenzione del mondo sulla questione uigura mentre Pechino ospitava i giochi olimpici.
Agli occhi di molti uiguri il deserto di Taklamakan incarna alla perfezione le loro radici.
Nel 1980 la scoperta di alcune mummie che risalivano a più di seimila anni fa ha favorito la nascita di un ampio movimento nazionalista.
Tra i reperti c'era la mummia di una donna, i cui tratti ricordano molto quelli delle popolazioni locali.
"La madre della nazione", come è stata battezzata, è diventata ben presto un simbolo per milioni di uiguri, riportato su volantini e manifesti.
Il suo volto è stato anche scelto per illustrare la copertina di un disco che conteneva una canzone intitolata "Kikuran guzali" (la bellezza di Kikuran).
Kikuran è il nome uiguro di Lou Lan, la città dove sono state ritrovate le mummie e da cui si accede alla parte orientale del Taklamakan.
CINA (DESERTO DI "TAKLAMAKAN").

A OGNUNO IL SUO ORARIO.

L'esploratore svedese Sven Hedin attraversò questo deserto verso la fine dell'ottocento.
Nelle sue memorie descrisse il viaggio come una "via dolorasa", ricordando le tante perdite in termini di vite umane e di animali.
Non a caso si dice che il Taklamakan sia popolato dai fantasmi.
Per secoli intere città sono state sepolte dalla sabbia, lasciando un senso di desolazione a chi cercava di attraversare il deserto.
Sul Taklamakan circolavano le leggende più folli.
Si raccontava di città con strade lastricate d'oro, e per questo molti cercatori di tesori si avventurarono in quei luoghi.
La maggior parte di loro tornò a mani vuote.
Altri esploratori, come Aurel Stein o Albert von Le Coq, trovarono invece delle splendide opere d'arte, smentendo così la teoria dei cinesi secondo cui la regione doveva essere popolata da barbari.
Prima di sparire sotto la sabbia, queste città hanno visto passare le carovane che, oltre alle merci, portavano il buddismo.
Arrivata dall'India, questa filosofia ha lasciato molte tracce nel Taklamakan.
Tracce scoperte solo alla fine dell'ottocento dagli occidentali che volevano riempire i loro musei di opere d'arte.
Britannici, tedeschi, francesi, russi e statunitensi hanno esplorato il deserto portando via affreschi, manoscritti e statue che testimoniavano la ricchezza culturale della regione.
In quest'area hanno convissuto a lungo persone e idee arrivate dall'India, dall'Asia centrale e dalla Cina.
Infatti, nonostante le sue riserve verso i "barbari", l'antico impero cinese ha sempre cercato di estendere il suo dominio, insediando guarnigioni che poi cedevano regolarmente di fronte alle offensive dei tibetani o dei sovrani locali.
Solo nell'ottocento la Cina è riuscita ad annettere la regione, dandole il nome di Xinjiang (nuova frontiera) e avviando un'integrazione forzata.
L'islam era diventato da tempo la religione dominante della regione.
Nel 1949, quando Mao Tse Tung arrivò al potere, gli uiguri rappresentavano il 90 per cento della popolazione dello Xinjiang.
La coabitazione con i cinesi non è mai stata facile.
Basta andare a Kashgar, punto di accesso occidentale al Taklamakan, per rendersi conto delle tensioni tra le due comunità: non sono d'accordo su nulla, nemmeno sull'ora.
Prendere l'aereo, il treno o la corriera per Kashgar in partenza da Urumqi, capitale dello Xinjiang, riserva delle sorprese.
Ufficialmente in Cina c'è un solo fuso orario: quando è mezzogiorno a Pechino, lo stasso vale a Lhasa, in Tibet o a Urumpi.
Ma nello Xinjiang le cose vanno diversamente.
C'è l'ora di Pechino, come indicano i tabelloni alla stazione degli autobus o all'aeroporto, e c'è l'ora locale seguita dagli uiguri: due ore prima rispetto al resto dei cinesi.

mercoledì 13 gennaio 2010

CINA (DESERTO DI "TAKLAMAKAN").

LA VIA DELLA SETA.

"Il deserto di Taklamakan, in Cina, è uno dei più grandi del mondo.
Ha dune di quaranta metri e antiche città sepolte dalla sabbia".

Quando lasciate Jiayuguan abbandonate il mondo degli uomini per inoltrarvi in quello dei fantasmi", recita un vecchio adagio.
La fortezza, all'estremità occidentale della Grande muraglia, si trova sulla via che porta al deserto del Gobi.
Per secoli questo punto ha segnato il confine tra la Cina - il mondo civilizzato - e un universo che si credeva popolato solo da barbari.
Ancora oggi la fortezza conserva il suo aspetto imponente, con le torri colorate che svettano dalle alte mura fatte di argilla, sassi e paglia.
La porta occidentale si apre su una regione inospitale dominata dalla sabbia e dal vento.
Un tempo era il punto di passaggio obbligato delle carovane che percorrevano le vie della seta, a nord e a sud dell'attuale provincia dello Xinjiang.
La via più meridionale attraversa il deserto di Taklamakan, nome che significa "se vi addentrerete non ne uscirete più".
Il terzo deserto più grande del mondo, dopo il Sahara e il Kalahari, ha dune che possono raggiungere i quaranta metri d'altezza.
Le panure, invece, sono molto argillose e sassose.
Insieme al caldo, rendono la traversata estremamente difficile.
CINA (DESERTO DI "TAKLAMAKAN).

INFORMAZIONI PRATICHE:

ARRIVARE E MUOVERSI.

Per andare in Cina è necessario il visto.
Il costo varia in base alla nazionalità e alla validità del passaporto.
Per saperne di più consultare il sito dell'ambasciata cinese (it.chinaembassy.org/ita).
Il prezzo di un volo dall'Italia (Air Cina, China Southern Airlines, Alitalia) per "Urumqi" parte da 1.059 euro a/r.
Arrivati a Urumqi si può proseguire in treno fino a Kashgar.
Per le informazioni sui trasporti nello Xinjiang (autobus, treni e aerei): Tour and travel service (silkroadguide.net).

CLIMA.
A Urumqi l'estate è calda e secca.
D'inverno la temperatura scende sottozero.

DORMIRE.
Sulla strada tra Urumqi e Kashgar si può fare una sosta ad Asku (Hotel Hongfu Jinlan), Korla (Kangcheng Jianguo hotel) o a Kuqa (Qiu Zi hotel).
Il Seman hotel di Kashgar è uno degli alberghi più belli della città.
A MIO AVVISO E' UTILE SAPERE CHE:
In Italia esiste una attività che da più di 35 anni produce e commercializza "BANDIERE E RELATIVI ACCESSORI", da utilizzo sia per interni che per esterni, partendo dalle bandierine da tavolo e arrivando fino ai pennoni in alluminio oppure in vetroresina da mt. 5 a mt. 22.
L'attività in oggetto è la "B.A.F.A. BANDIERE" (vedi catalogo in internet).
PROFILO DELL'AUTORE E INDICE VIAGGI A INIZIO BLOG "ERMANNO RARIS"

martedì 12 gennaio 2010

INDIA ("ISOLE ANDAMANE").

IL DESSERT SI RACCOGLIE SUI RAMI.

La notte abbiamo sentito il profumo dei mandorli e dei banani.
La mattina siamo stati svegliati dal canto degli uccelli che si erano posati tra gli alberi di papaia.
Sul molo, un vecchio battello indonesiano, comprato all'asta e restaurato, è pronto a levare l'ancora per l'isola di South Button.
A prua una panca di legno scolpita e due materassi per permettere ai passeggeri di godersi il paesaggio.
Il battello lascia uno squarcio bianco in mezzo all'acqua turchese.
Delle tartarughe giganti si lasciano trasportare dalle correnti e dei minuscoli pesci argentati saltano sulla superficie del mare.
South Button è un sasso in mezzo all'oceano con qualche albero e con i più bei coralli del mondo.
Quando ci si tuffa in acqua sembra che i pesci non cambino rotta di un millimetro.
Il passaggio del sergente maggiore, a righe gialle e nere, non spaventa i gamberetti.
Al contrario, i fucilieri dalla coda gialla, della grandezza di una mano, non si avventurano mai da soli.
Le piovre lasciano galleggiare i loro tentacoli, accanto ai pescipalla circondati di spine.
I coralli sembrano velluto.
Una volta risaliti in superficie, l'equipaggio accosta lungo una spiaggia deserta.
A pranzo la scelta del menù varia con la diversità della fauna sottomarina.
Il cuoco non porta né cappello né grembiule, ma è in costume da bagno e insieme agli altri utensili da cucina ha sempre anche un arpione.
Ora si è allontanato con la maschera da immersione.
Mezz'ora dopo, un magnifico pesce guizza su una foglia di palma, pronto per essere grigliato al fuoco.
Il dessert si raccoglie sui rami dei tamarindi che traboccano di frutti.
Man mano che il sole scompare, un cielo striato di rosa e di azzurro pallido ricopre l'oceano.
Non è tardi per godersi la spiaggia.
La notte stellata offre abbastanza chiarore per farsi strada fino al mare.
Nell'acqua delle minuscole alghe fosforescenti ci scivolano intorno.
Ritorno sulla spiaggia numero 7 cosparsa di frammenti di coralli.
D'un tratto il rumore delle onde è interrotto dalle discussioni appassionate in ebraico.
L'isola è piena di giovani israeliani che vengono qui a riposarsi dopo aver fatto il servizio militare.
Il ritorno a Port Blair si può fare in traghetto o, se si ha fretta, con un altro mezzo di trasporto pubblico: l'elicottero.
Il biglietto costa al massimo 20 euro.
Sul battello gli indiani hanno messo a posto le loro videocamere e ammazzano il tempo giocando a carte su casse piene di banane.
Le giovani coppie, chine sul parapetto, guardano con tristezza i ricordi della loro luna di miele sparire all'orrizzonte.



INDIA ("ISOLE ANDAMANE").

AL BAREFOOT non c'è nè servizio in camera nè televisione.
"Non appena un cliente ci chiede dov'è la televisione, alziamo bandiera bianca", ammette il proprietario che non vede di buon occhio le coppie che vengono a passare la luna di miele: "Vivono in un loro mondo e rimangono tutto il giorno in camera".
L'hotel propone varie attività: escursioni nella foresta, pesca d'altura, immersione subacquea, e un giro con Rajan, il pachiderma del Barefoot.
Gli elefanti sono abituati a nuotare perchè un tempo erano usati per i lavori di deforestazione e il trasporto del legname da un'isola all'altra.
I turisti possono passeggiare vicino alla riva sul dorso di Rajan, farsi un bagno o esplorare i fondali marini in sua compagnia.
Non lontano, ai margini della foresta, è stato costruito un parco per elefanti.
Le guardie forestali, stanche di guardare il cricket in televisione, hanno insegnato agli animali a giocare a calcio.
Gli elefanti sono così amati che compaiono anche sui calendari insieme a ragazze bionde e sorridenti, sedute in costume da bagno sulla loro proboscide.
Per avventurarci all'interno dell'isola dobbiamo seguire la nostra guida, Khokan, che con il machete si apre un varco nella vegetazione.
Le Andamane e Nicobare ospitano 2.200 varietà di fiori e 218 specie di uccelli, alcuni dei quali si vedono solo qui.
L'uccello termometro, per esempio, che può controllare il calore del suo nido grazie a un sensore termico sulla punta del becco.
O la salangana, che costruisce nidi commestibili ricercatissimi in Cina per le loro proprietà afrodisiache e medicinali.
"La foresta è un'autentica dispensa", esclama Khokan.
Gli ananas, i frutti della passione oppure i chiodi di garofano spuntano all'ombra dei banani e delle palme di cocco.