martedì 23 febbraio 2010

COSTA RICA.

ISOLAMENTO SOTTERRANEO.

Le celle rettangolari, poco più grandi di un monolocale, contenevano fino a ottanta persone.
Una volta i prigionieri dormivano sul pavimento, mentre in tempi più recenti sono stati aggiunti dei letti di metallo con dei materassi sottili.
I soffitti erano bassi e c'erano poche finestre, la ventilazione era quasi inesistente.
"Ehi!", ha gridato Josué uscendo da una cella.
"Vieni a vedere cos'ho trovato".
Il sole di mezzogiorno inondava il cortile interno.
Le foglie cadute da una pianta di "guaramo" coprivano il pavimento di cemento.
Potevo respirare il profumo dell'oceano e sentire le onde infrangersi sulla spiaggia.
Chissà che sollievo doveva essere per i detenuti stare qui anche solo per pochi minuti.
Josué, una ex guida naturalistica che ora lavora per l'ente del turismo della Costa Rica, si è rivelato un compagno di viaggio ideale.
Quando due anni fa ci siamo incontrati in un albergo nella giungla abbiamo scoperto di condividere la stessa curiosità per quest'isola.
La mia era cominciata leggendo un libro di José Leon Sànchez, un ex detenuto che per diciannove anni è stato chiamato Prigioniero 1713.
Leon Sanchez è entrato in prigione nel 1950 che a malapena sapeva scrivere, e ne è uscito dopo vent'anni quando ormai era uno scrittore affermato.
Qui aveva stampato la sua prima opera seguendo le istruzioni contenute in un articolo della rivista statunitense Popular Mechanics.
Ha pubblicato più di una ventina di libri, ma l'opera più famosa resta il romanzo basato sulla sua esperienza in carcere: "La isla de los hombres solos" (L'isola degli uomini soli).
Josué era stato per due volte a San Lucas quando era ancora in prigione.
"Avevo probabilmente dieci anni", mi ha detto.
"Non riesco a ricordare se ero venuto a trovare un amico di famiglia o un parente.
Ma la prigione me la ricordo molto bene.
Anni dopo, quando ero al liceo, comprai il romanzo di Sanchez in un negozio di libri usati e da quel momento decisi che sarei ritornato sull'isola".Josué aveva trovato uno dei luoghi descritti nel romanzo.
"Si tratta della cella d'isolamento sotterranea", mi ha spiegato, mettendosi in ginocchio accanto a una botola.
"Alcuni detenuti trascorrevano interi mesi lì sotto e avevano diritto a soli quindici minuti d'aria ogni giorno".
Quando abbiamo aperto la botola è arrivato un odore terribile, un misto di terra umida e metallo corroso.
Improvvisamente mi sono sentito schiacciato dal peso della prigione: "Facciamo una pausa, usciamo da qui", ho detto a Josué.
Il sentiero fino a El coco, una spiaggia di sabbia bianca a pochi passi dalla prigione, era ombreggiato dagli enormi alberi che lo circondano.
Nel bosco s'intravedevano i resti di alcune baracche di legno.
Nel 1958 il penitenziario era stato trasformato in una fattoria-prigione.
I detenuti con una buona condotta potevano stare alcune ore fuori della struttura principale per pescare, curare i giardini o vendere ai visitatori degli oggetti di artigianato.
"Mio padre comprò un piccolo pesce di legno.
Lo conserva ancora", mi ha detto Josué.
Il penitenziario descritto da Leon Sancez prima del 1958 era un posto molto diverso: "Sentivo sulla mia pelle il fuoco dell'acciaio, i lunghi mesi trascorsi lontano dalla luce, le mie mani incatenate con il ferro e il disprezzo per la mia condizione di essere umano.

Nel penitenziario ho capito che l'uomo può ridursi come un cane".
Ma Leon Sanchez descrisse in maniera straordinaria anche la bellezza dell'isola, ancora più toccante se paragonata agli orrori della prigione.

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