martedì 4 maggio 2010

STATI UNITI ("ALASKA").

LA RICERCA DELL'ESTREMO.

Ogni conducente d'autobus che incontro in Alaska ci fa da guida e snocciola continuamente statistiche, quasi fosse incapace di credere a quelle cifre.
L'11 per cento dei terremoti sulla terra avviene qui.
In Alaska c'è una faglia grande quasi il doppio di quella di Sant'Andrea in California.
Anchorage è a nove ore e mezzo d'aereo dal 90 per cento del mondo civilizzato.
"Serve una distesa di quasi 600 metri d'acqua per far atterrare un idrovolante", mi ha detto il primo giorno uno dei nostri compagni di viaggio.
"Lo sai quanti di questi spazi ci sono in Alaska?".
"Mille".
"No".
"Diecimila?".
"No, tre milioni".
Sbarcato dal Cessna traballante che rombando mi porta via da Denali, mi ficco in un altro aggeggio meccanico alato che mi precipita nell'insenatura nascosta di Redoubt bay.
Scendo dall'aereo insieme ad altre due persone su una piccola pista in mezzo a un lago.
Le colline di Sikta si stagliano sopra di noi ed entrando in uno chalet noto delle impronte di zampe d'animale sulla porta.
"Un cane?, domando.
"No.
Un orso.
Vai laggiù, vicino a una di quelle costruzioni, e forse lo vedi".
Mi siedo per una tazza di tè e chiedo a uno degli operai quanto è distante la strada più vicina.
"Intende una strada che porti da qualche parte?", risponde, pensandoci su per un bel po'.
"Intorno ai cento chilometri", dice alla fine.
Non è una cosa insolita per l'Alaska: molte famiglie vivono talmente lontane dai mezzi di trasporto che quando vanno in città devono fermare i treni dell'Alaska Railroad.
Non c'è da meravigliarsi che le persone che si trasferiscono qui, lontano dalla società, si vantino della propria eccentricità.
"Ho incontrato un tipo al Salty Dawg, a Homer, che mi ha detto di saper costruire una bomba nucleare, proprio lì nel bar.
Pensavo mi stesse prendendo in giro, ma un mio amico che fa il fisico mi ha assicurato che tutti i numeri corrispondono", racconta uno degli operai a Redoubt Bay.
Ho vissuto a lungo in California, ma comincio a chiedermi se effettivamente ho mai respirato la vera promessa dell'America.
Qui in Alaska ogni volta che scendo da una barca o da un aereo mi sembra di tornare al diciannovesimo secolo, quando tutto era possibile e il continente era un nuovo mondo in attesa di essere esplorato.
"L'ultima volta che sono venuto qui, nel 1986, dei tipi dello shalet una sera hanno deciso di uscire a cercare l'oro.
Uno è tornato con una pepita di mezzo chilo", mi racconta un compagno di viaggio a Denali.
E' come se qui tutti cercassero gli estremi, in una società che non ha centro e dove niente sembra normale, a parte la normalità.
Circa tre visitatori su cinque arrivati in Alaska vedono la terraferma solo dall'oblò mentre navigano lungo la costa.
Molte navi da crociera partono da Vancouver e superano l'Inside passage in Canada passando davanti alle magnifiche sculture d'acqua color turchese di Glacier Bay, dove il silenzio è spezzato soltanto da un suono, simile a una fucilata: sono i blocchi di ghiaccio, alti come i palazzi, che si staccano in lontananza.
Nei giorni passati sulla nave, l'imponente Island Princess, non vedo altro che spazi aperti e orizzonte.
Poi sbarchiamo nei vari insediamenti spazzati dal vento lungo la costa: Skagway, Juneau, Ketchikan.

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