martedì 4 maggio 2010

E' GIUSTO SAPERE:
Ho deciso di offrire a chi piace viaggiare (con la fantasia oppure in prima persona) una possibilità di scegliere degli intinerari prevalentemente avventurosi, che si distinguono per la loro diversità dai viaggi tradizionali.
Le descrizioni le traggo dal settimanale "INTERNAZIONALE" del quale sono abbonato ed affezionato lettore di tutti gli articoli che lo compongono.
Spero di fare cosa gradita a quanti mi leggeranno, ed auguro a tutti una piacevole lettura.
ERMANNO RARIS
PROFILO DELL'AUTORE E INDICE VIAGGI A INIZIO BLOG "ERMANNO RARIS"
STATI UNITI ("ALASKA").

IN QUESTE CITTA' segnate dalle intemperie e che vivono grazie ai turisti delle navi da crociera che approdano soltanto per pochi mesi l'anno, si respira l'atmosfera del commercio portato all'estremo, oggi tradotto in mille lingue e in una speranza universale.
A Skagway, tra i vecchi bordelli e i saloon della corsa all'oro, mi imbatto in due turchi dall'aria triste che vendono tappeti di lusso in un negozio chiamato Oriental rugs.
Nella bottega Port of call, visitata soprattutto dagli equipaggi delle navi da crociera, un romeno chiacchiera a un cellulare affittato al minuto.
Di fianco, un uomo su una webcam ha appena svegliato la moglie in Messico.
Il motto dell'Alaska è "North to the future" (a nord verso il futuro), anche se ovviamente il futuro non arriva mai.
Passeggio per Juneau in una mattina nebbiosa e fredda di fine estate e la prima statua che incontro commemora l'eroe ottocentesco filippino Josè Rilaz, poeta, nazionalista e martire principale della rivoluzione filippina, che domina Manila square.
In centro c'è un solarium, un negozio di artigianato nepalese e un grande emporio che vende "uova ucraine, bambole matrioska, ambra del Baltico".
Le domande fondamentali sull'Alaska riguardano tutta l'America: quanto può vivere una persona in mezzo a una natura così incontaminata, e qual è il costo di una vita del genere?
E ogni volta che vedo un orso arrampicarsi all'orizzonte, penso a un altro archetipo del romanticismo americano, Timothy Tradwell, che passò intere estati in Alaska a vivere con i grizzly, chiamandoli per nome e convincendosi che fossero suoi amici.
Poi un incontro andò per il verso sbagliato e Treadwell pagò con la vita.
"Bisogna avere rispetto per la terra , bisogna conoscerla.
L'unica cosa che s'impara qui è come prepararsi ad affrontare la natura", mi ha detto una naturalista a Denali.
Ecco perchè in Alaska la gente studia le feci dei lupi e le abitudini degli orsi.
Ripenso alle mappe su cui ho fatto scorrere le dita prima di partire: molti nomi mi erano sembrati incomprensibili, altri - come Point Hope - facevano pensare che qualche viaggiatore preoccupato avesse provato attraverso i nomi a dare una connotazione meno selvaggia a questi luoghi desolati.
Qualche ora dopo il mio arrivo ad Anchorage, la cenere vulcanica trasportata dal vento dalle Isole Aleutine, a 1.500 chilometri di distanza, ha fatto chiudere l'aeroporto, confermando che tutte le certezze erano spazzate via e che mi trovavo da solo nel regno delle infinite possibilità.
STATI UNITI ("ALASKA").

LA RICERCA DELL'ESTREMO.

Ogni conducente d'autobus che incontro in Alaska ci fa da guida e snocciola continuamente statistiche, quasi fosse incapace di credere a quelle cifre.
L'11 per cento dei terremoti sulla terra avviene qui.
In Alaska c'è una faglia grande quasi il doppio di quella di Sant'Andrea in California.
Anchorage è a nove ore e mezzo d'aereo dal 90 per cento del mondo civilizzato.
"Serve una distesa di quasi 600 metri d'acqua per far atterrare un idrovolante", mi ha detto il primo giorno uno dei nostri compagni di viaggio.
"Lo sai quanti di questi spazi ci sono in Alaska?".
"Mille".
"No".
"Diecimila?".
"No, tre milioni".
Sbarcato dal Cessna traballante che rombando mi porta via da Denali, mi ficco in un altro aggeggio meccanico alato che mi precipita nell'insenatura nascosta di Redoubt bay.
Scendo dall'aereo insieme ad altre due persone su una piccola pista in mezzo a un lago.
Le colline di Sikta si stagliano sopra di noi ed entrando in uno chalet noto delle impronte di zampe d'animale sulla porta.
"Un cane?, domando.
"No.
Un orso.
Vai laggiù, vicino a una di quelle costruzioni, e forse lo vedi".
Mi siedo per una tazza di tè e chiedo a uno degli operai quanto è distante la strada più vicina.
"Intende una strada che porti da qualche parte?", risponde, pensandoci su per un bel po'.
"Intorno ai cento chilometri", dice alla fine.
Non è una cosa insolita per l'Alaska: molte famiglie vivono talmente lontane dai mezzi di trasporto che quando vanno in città devono fermare i treni dell'Alaska Railroad.
Non c'è da meravigliarsi che le persone che si trasferiscono qui, lontano dalla società, si vantino della propria eccentricità.
"Ho incontrato un tipo al Salty Dawg, a Homer, che mi ha detto di saper costruire una bomba nucleare, proprio lì nel bar.
Pensavo mi stesse prendendo in giro, ma un mio amico che fa il fisico mi ha assicurato che tutti i numeri corrispondono", racconta uno degli operai a Redoubt Bay.
Ho vissuto a lungo in California, ma comincio a chiedermi se effettivamente ho mai respirato la vera promessa dell'America.
Qui in Alaska ogni volta che scendo da una barca o da un aereo mi sembra di tornare al diciannovesimo secolo, quando tutto era possibile e il continente era un nuovo mondo in attesa di essere esplorato.
"L'ultima volta che sono venuto qui, nel 1986, dei tipi dello shalet una sera hanno deciso di uscire a cercare l'oro.
Uno è tornato con una pepita di mezzo chilo", mi racconta un compagno di viaggio a Denali.
E' come se qui tutti cercassero gli estremi, in una società che non ha centro e dove niente sembra normale, a parte la normalità.
Circa tre visitatori su cinque arrivati in Alaska vedono la terraferma solo dall'oblò mentre navigano lungo la costa.
Molte navi da crociera partono da Vancouver e superano l'Inside passage in Canada passando davanti alle magnifiche sculture d'acqua color turchese di Glacier Bay, dove il silenzio è spezzato soltanto da un suono, simile a una fucilata: sono i blocchi di ghiaccio, alti come i palazzi, che si staccano in lontananza.
Nei giorni passati sulla nave, l'imponente Island Princess, non vedo altro che spazi aperti e orizzonte.
Poi sbarchiamo nei vari insediamenti spazzati dal vento lungo la costa: Skagway, Juneau, Ketchikan.

lunedì 3 maggio 2010

STATI UNITI ("ALASKA").

CI SONO PERSONE sedute sulle panchine sotto la luce grigia e spettrale delle nove di sera e indigeni che vendono orsetti di peluche turchesi lungo una strada affollata.
In un negozio, i cartelli che pubblicizzano portafogli in pelle di salmone e bicchieri di pelle di foca sono scritti in inglese e in giapponese.
Davanti alle entrate ci sono grandi orsi impagliati, e un alce fa la guardia all'ingresso di Starbucks.
Ma in mezzo a questi segni scarni dell'insediamento umano l'aria ha una limpidezza argentea, una chiarezza nordica.
Nelle giornate terse dal centro di Anchorage si vede il Denali, a 230 chilometri di distanza.
A mezzanotte si può leggere un libro per strada senza bisogno della luce dei lampioni.
Ricordo che il naturalista John Muir trovava nei cieli dell'Alaska una radiosità e un senso di possibilità che parevano rasentare il divino.
Comincio a capire che nessuno viene in Alaska per le città, ma per il contesto che le circonda.
Un abitante di Anchorage indica una renna seduta tranquillamente dentro una gabbia, in un giardino in pieno centro.
"Il tuo primo esemplare di fauna locale!", annuncia orgoglioso il mio nuovo amico.
"Veramente, il secondo", rispondo.
"Ho visto un alce che pascolava vicino alla strada, fuori dell'aeroporto".
"Già", risponde, per niente impressionato.
"Io ho visto delle balene mentre venivo qui in auto, e anche un orso.
Uno di loro ha appena assalito una donna che stava facendo una passeggiata nel parco del mio quartiere.
Proprio vicino a casa mia".
"Fuori città".
"No.
Non molto lontano da qui".
La stessa sensazione di piccolezza in mezzo agli elementi si ripropone il giorno dopo all'alba.
Alla guida dell'autobus che ci porta al parco nazionale di Denali, a cinque ore e mezza da Anchorage, c'è un ragazzo appena arrivato dalla Virginia.
"Adesso vedremo le attrazioni del luogo", dice mentre partiamo.
"Quel che preferisco sono i prezzi della benzina che crescono appena si esce dalla città".
Poco più tardi, in quello che comincia a sembrarmi un tipico gusto alaskano per le battute: "Se sentite uno strano palpito in fondo al cuore, un inspiegabile senso di eccitazione, forse è perchè stiamo arrivando nella capitale mondiale dello scotch da pacchi": Wasilla, la città natale di Sarah Palin.
Ma quando ci fa scendere all'ingresso del parco tutta l'ironia sparisce.
A Denali, una distesa di due milioni e quattrocentomila ettari, non sono ammesse auto private e gli chalet attrezzati sono pochi.
Quasi tutti i visitatori arrivano in autobus, proseguono per cento chilometri lungo un'unica strada stretta, ed escono.
Noi, invece, ci godiamo una gita di 120 chilometri su strade sterrate per raggiungere le nostre piccole baite a Camp Denali, dove alci e orsi passeggiano indisturbati e le alte cime innevate si riflettano nel lago.
Ho scoperto che un posto tranquillo t'insegna a essere vigile.
Il silenzio ti rende acuto come un orso, ricettivo ai rumori nella boscaglia come si può esserlo in un teatro di Venezia di fronte ai cambi di tonalità di Vivaldi.
Il primo giorno a Denali una ragazza del gruppo di naturalisti del campeggio ci fa vedere come si "legge" il teschio di un caribou: l'assenza del corno indica che è morto prima dell'arrivo della primavera.
Poi ci indica le gru canadesi, che preannunciano l'arrivo dell'autunno.